martedì 27 luglio 2010

Del perché le vacanze fanno male (a qualcuno)



Si chiama Holiday Blues e non è, evidentemente, un pezzo musicale. Si tratta invece del simpatico nome affibbiato dagli statunitensi ad una forma di depressione post vacanza che può andare da pochi giorni a una-due settimane. Alcuni sintomi sono:

Insonnia Cefalee Alterazioni dell’appetito Intolleranza ed irritabilità verso tutto e tutti Spossatezza cronica Calo della concentrazione Ansia da prestazione lavorativa

A prima vista sembrerebbe più che normale sentirsi a disagio nel momento in cui sostituiamo il bel cielo terso del mare a quello latte sporco di Milano ed il fruscio delle onde o la musica delle nostre serate si trasformano nel clangore dei tram e negli strombettii dei clacson e spiagge e palme cambiano nell’arredo del nostro ufficio. Eppure è un fenomeno che non riguarda solo chi ha un impiego ed è costretto a tornare alla routine o allo stress del traffico, ma riguarda tutti i vacanzieri, compresi i bambini, gli studenti, e gli anziani. Studi recenti dicono che la sindrome colpisce oltre il 30% degli italiani.

Qual è il punto interessante? Secondo me è legato ad un altro dato: ovvero che i soggetti più predisposti a soffrire di questa sindrome sono quelli che hanno caricato le vacanze di maggiori aspettative. Insomma pare che molti aspettino e vivano le vacanze come il momento del “riscatto” da un anno di frustrazione, fatica e grigiore. Aspettandosi di vivere esperienze entusiasmanti, conoscere gente speciale, provare emozioni intense e sentirsi speciali. Ovviamente nel momento in cui l’esperienza non si dimostra all’altezza tutto crolla e si rientra più stanchi e frustrati di prima. Ma perché ci si riduce così? Perché la necessità di condensare in 15 giorni tutte queste aspettative e tutti questi desideri? Perché insomma la vacanza deve diventare il momento programmato in cui finalmente possiamo e dobbiamo essere felici e per cui magari ci siamo preparati con largo anticipo terrorizzati anche dallo spauracchio della infame “prova costume”? Il meccanismo è perverso e le cause sono evidentemente due:

-da un lato il solito modernissimo squilibrio tra vita privata e lavoro (a vantaggio di quest’ultimo) e una difficoltà sempre più grande a trovare il nostro centro nel quotidiano

-dall’’altro l’incapacità di essere veramente “disponibili” all’esperienza della vacanza

Cosa significa quest’ultimo punto? Lo spiega bene la famosa storia zen della tazza di tè (una versione qui: http://web.ticino.com/cobra/zen/stories/a068%20Una%20tazza%20di%20te%27.html). Se la nostra tazza è troppo piena di progetti, aspettative, desideri, non resterà spazio per le opportunità reali che la nostra agognata vacanza ci pone di fronte…e come già detto, quando siamo troppo focalizzati su qualcosa, perdiamo di vista tutto il resto. Tra l’altro, la parola vacanza viene proprio da “vuoto” e questo dovrebbe essere già un indicazione.

Quali consigli ci potrebbe dare quindi il solito maestro zen per un approccio “sano” alle ferie? Innanzitutto di considerare il vuoto come una vera risorsa, da non riempire a tutti i costi. Quindi di essere il più possibile nel momento, qualsiasi esso sia. Rallentare, non per “riposare” fantozzianamente ma per ricominciare ad accorgersi della ricchezza attorno a noi. Scegliere la semplicità e soprattutto non settare irrealistiche aspettative. E neppure limiti. Quasi sempre (e tutti lo sanno), le esperienze più ricche sono quelle inaspettate.

Buon “vuoto” a tutti quindi!

martedì 6 luglio 2010

Calore e cravatte: il burka occidentale



Estate. Una mattina qualsiasi a Milano. Temperatura di 35° e 90% di umidità.
Un ufficio: moquette grigia, mobili sobri e funzionali.
Il nostro eroe, chiamiamolo Evaristo, siede alla scrivania madido di sudore dopo la calda infusione negli umori di altri meschini come lui stipati in tram o metropolitane quasi mai condizionati. Toglie la giacca esponendo le chiazze scure che gli decorano le ascelle e finalmente comincia a rilassarsi sotto il getto dell'aria condizionata. Normalmente il sollievo è di poca durata, il poro riottoso comincia appena a chiudersi, che compare la collega Irma inferocita che, prima ancora di salutare, proclama: "ma sono impazziti? Ora chiamo l'assistenza e faccio abbassare l'aria condizionata".
Visto che per qualche legge non scritta chi ha freddo ha sempre ragione Evaristo inghiotte e si rassegna a sudare per il resto della giornata.

Perchè Evaristo si trova in questa situazione?

Perchè l'abbigliamento del nostro eroe consiste in:
biancheria intima, calze scure al ginocchio, scarpe allacciate nere, pantalone in fresco (???) di lana blu, camicia a maniche lunghe, cravatta e, se è un duro e puro, canottiera di sotto per assorbire il sudore. La giacca viene eliminata quanto prima e finisce gagliardamente appesa da qualche parte ed esplica la unica funzione di passeggero non pagante (viene indossata prima di uscire, tolta se possibile durante il tragitto ed immediatamente appesa da qualche parte in ufficio. Rimessa prima di uscire, tolta nel tragitto a casa e riposta nell’armadio). L'abbigliamento della dolce Irma invece consiste di:
sandalo aperto allacciato (praticamente una suola e alcune stringhe), tubino di cotone o simili senza maniche e mezzo chilo di bigiotteria rumorosa. E quindi lei giustamente ha freddo...lui giustamente ha caldo. E come lui in tanti, tantissimi, stipati in uffici resi compatibili con la vita umana grazie ad enormi split che pompano nella città arroventata una quantità enorme di metri cubi di aria calda. E rendendo la città molto molto simile ad un forno inquinato.

Si sa l’abito maschile è una convenzione sociale comunemente accettata e condivisa in determinati ambienti. Tanto accettata che molti non provano neanche per scherzo a metterla in discussione. Come molte convezioni tra l’altro non risponde a nessun criterio scientifico, utilitaristico o naturalistico. Insomma non ha alcun senso se non nell’essere appunto una convenzione. Con alcune controindicazioni piuttosto serie.

Innanzitutto la diversità di abbigliamento dei generi come visto sopra crea un disallineamento tra le aspettative di utilizzo dell’aria condizionata. E provoca conflitti e tensioni: secondo una ricerca svolta da Canon Europe & Icm Research i problemi con il condizionamento sono responsabili del 43% dello stress che accumuliamo in ufficio.
Quindi è un comportamento anti ecologico. E’ stato dimostrato che, ad esempio, togliere definitivamente la cravatta porta ad una minor necessità di refrigerazione di 1-2 °. Il che sembra poco ma in realtà studi ed esperimenti (come quelli fatti dall’ENI: vedi http://www.rinnovabili.it/per-risparmiare-energia-eni-si-toglie-la-cravatta-701343 ) dimostrano che questo grado di differenza ha un grosso impatto su consumi energetici ed emissione di inquinanti nell’atmosfera. Cosa si potrebbe ottenere eliminando di più?

Astraendosi dal quotidiano è evidente che l’abito di lana sta ai 35° di temperatura come pantaloncini corti e maglietta stanno ad una giornata di neve. E allora perché è così difficile liberarsi di questo vecchi, vecchissimo simbolo di eleganza e professionalità maschile quando le condizioni climatiche lo rendono evidentemente “sbagliato”? Gli uomini (maschi) si sa hanno poca fantasia. Ed uno dei motivi è che rifugiarsi nel consueto e consolante abito deresponsabilizza dalla necessità di accendere iniziativa e creatività. E qualcuno, testimonianza raccolta da chi scrive, ha anche difficoltà a sentirsi autorevole e credibile se non è coperto da almeno tre strati di stoffa. Potere dei simboli. Potere della conformità. E dell’insicurezza. Mi vengono in mente a questo punto due domande.

Come possiamo pensare di fare passi significativi per il progresso del pianeta quando non siamo in grado di mettere in discussione una cosa semplice come il dress code estivo?

E soprattutto, tutti questi meravigliosi stilisti orgoglio del nostro paese e maestri di stile, piuttosto che inventarsi nuove forme di giarrettiere borchiate per sostenere stivali da cowboy in pitonato fucsia e collari sadomaso (da uomo ovviamente, e che si vedono solo alle sfilate) non possono impegnarsi un attimo e magari regalare al mondo un modo, sempre elegante, ma più fresco di vestirsi?

Forse un giorno i posteri guarderanno al modo in cui andiamo vestiti d'estate come oggi guardiamo alle parrucche incipriate portate nel ‘700.