lunedì 25 agosto 2014

Generazioni al lavoro



“Gioventù non sa quel che può, maturità non può quel che sa...”

“SOLIDARIETÀ GENERAZIONALE: Il desiderio di una determinata generazione di etichettare come imbelle quella successiva, allo scopo di esaltare il proprio orgoglio collettivo.”
D. Coupland, Generazione x



I segmenti generazionali oggi rappresentati nelle aziende sarebbero tre: i Babyboomers, nati tra il 1943 e il 1960; la Generazione x, nati tra il 1961 e il 1981; la Generazione Y, o Millenials, nati dopo il 1982. Non si tratta solo di etichette anagrafiche, ma di tre gruppi con sistemi di valori e modi di intendere la relazione con l’azienda del tutto propri, distinti e, in misura diversa, distanti gli uni dagli altri. Le differenze emergono su svariati temi quali, per citarne alcuni, stile di comunicazione, motivazione, aspettative di carriera, work life balance, stili di apprendimento, identità sociale. Il senso di appartenenza all’azienda, per esempio, per i baby boomers sarebbe fondato su un “patto” implicito, che avrebbe, come contropartita, una progressione tanto lineare quanto talvolta scontata. Per la generazione di Douglas Coupland, invece, il lavoro è prima di tutto un dovere e il diritto che ne deve derivare è di tipo meritocratico. Lo stesso tema diventa più sfaccettato per la generazione y, che ha scelto, o forse ha dovuto scegliere, di essere impiegabile prima ancora che impiegata. Il dominio dell’incertezza si traduce in una maggiore autonomia della propria identità dal “posto di lavoro”, in un percorso che ricerca prima di tutto coerenza con il proprio essere e i propri obiettivi.
Anche il tema della relazione con i capi e i colleghi offre prospettive diverse: se si osserva dalla posizione dei “boomers”, vi è il rispetto delle gerarchie, un confine tra privato e pubblico chiaramente tracciato e protetto, un feedback accettato di buon grado solo se somministrato a piccole dosi; se ci spostiamo dal lato opposto osserviamo come i Millenials, che vivono con difficoltà la gerarchia, trovino estremamente facile e naturale condividere in senso ampio, sfumando fino a confondere i confini tra privato e pubblico e, con la stessa rapidità e frequenza di un aggiornamento di stato su facebook, dare, ricevere, richiedere un feedback.
All’inizio del secolo il sociologo Karl Mannheim scriveva che una delle caratteristiche fondamentali del succedersi tra una generazione e l’altra è la continua trasmissione dei beni culturali accumulati. Eppure questo meccanismo, non tanto alla luce delle evidenze solo brevemente accennate sopra, ma piuttosto a fronte di quanto è sotto gli occhi di tutti ogni giorno, sembrerebbe essersi inceppato, mostrando una netta frattura tra queste tre generazioni. E potremmo farcene una ragione e ignorare la faccenda, se non fosse per la nota correlazione positiva che esiste tra soddisfazione individuale, ingaggio, clima aziendale e produttività. E, vista da quest’altra prospettiva, la questione si fa immediatamente più rilevante. Il fattore generazionale diventa un elemento di diversità da gestire in ottica di inclusione e integrazione, affinchè nessuno si senta estraneo alla realtà di cui è parte. La raccomandazione più semplice che si potrebbe dare è quella di mettersi in ascolto delle differenze e di cogliere in ogni espressione di discontinuità una nota, magari insolita ma non per questo stonata, per comporre una sinfonia ancora inedita, quale sarebbe una cultura collettiva orientata alla valorizzazione delle soggettività.
Come si possono conciliare efficacemente le differenze generazionali? Quali sono i beni culturali da salvare e quali gli strumenti per una messa  a fattor comune? 

Alessandra Giardiello