domenica 12 dicembre 2010

L’inutilità del “thinking outside the box”

“Pensa fuori dagli schemi”…o “pensa outside the box”. Quante volte ce lo siamo sentiti dire? In azienda sono frasi comuni, per lo più elargite come paterno o amichevole consiglio, altre volte inserite all’interno delle performance review assieme ad altre perle in “aziendalese stretto”. Come se non bastasse poi, proprio chi esorta comportamenti volti alla creatività o presa di responsabilità è il primo artefice del contrario, severo boia di ogni iniziativa segata sul nascere e rigido censore di comportamenti volti a sovvertire lo status quo di cui, nonostante le parole, è solerte difensore. Ma questo è un altro discorso. Tornando invece al famoso “box”…cosa significa esattamente pensare “fuori” dalla scatola? Significa in sintesi “deragliare” dai binari su cui corrono i pensieri di tutti e prendere strade nuove. Benissimo. Chi ha provato a trovare una soluzione ad un problema in questo modo sa quanto frustrante possa essere. Soprattutto se c’è qualcuno che ti osserva e ti fa pressione (dai su..su…sii creativo, pensa fuori dagli schemi). Questo perché ci si dimentica di un dettaglio e cioè che se i binari del nostro pensare corrono in un deserto, anche se deragliamo continueremo a trovarci nel deserto.

Il concetto è semplice. Se vogliamo esplorare una nuova idea bisogna che nel nostro cervello questa idea compaia almeno come possibilità. E’ la possibilità che favorisce la creatività, non il contrario. E queste “possibilità” saranno presenti ed a nostra disposizione solo se ci alimentiamo di idee, concetti, esperienze nuove. Se siamo disponibili al mondo, curiosi, attenti, desiderosi di imparare.

Un esempio reale? Tutti noi abbiamo fatto passeggiate nei campi. Ed a tutti è capitato di trovarsi dei piccoli fiori attaccati ai pantaloni alla fine della passeggiata. Fastidioso contrattempo che abbiamo eliminato strappando i fastidiosi ospiti e gettandoli via. Qualcuno però, nella fattispecie Georges De Mestral agli inizi degli anni 50 decise di fermarsi, portare uno di questi fiori (di bardana) in laboratorio ed osservarlo al microscopio. Da quest’idea e da questa osservazione è nato il Velcro che lo ha reso ricchissimo. Qual è il messaggio? Qualcuno, come Georges De Mestral ad esempio, si ferma ad esplorare il mondo, qualcuno tira diritto. Solo esplorando avremo a disposizione un giardino fertile in cui potremo deragliare con realistica speranza di ottenere qualcosa. Forse il concetto sembra banale ma la verità è che la maggior parte delle grandi invenzioni sono nate da menti vivaci e curiose che hanno ricevuto l’illuminazione osservando qualcosa d’altro.

Insomma: per poter avere idee innovative dobbiamo cambiare strada, ma perché la strada ci porti da qualche parte bisogna avere a disposizione una grande quantità di idee possibili. E queste idee possibili saranno a nostra disposizione se avremo esplorato ambiti e mondi diversi. Questo avverrà solo se ci sarà in noi una sana curiosità e sapremo liberarci dalla maledizione del diabolico “no” di principio. Di che cosa si tratta? Ne parleremo prossimamente.

lunedì 29 novembre 2010

Se...( riflessioni cattive in forma poetica su certa leadership)

Caro leader!

Se hai assunto fior di consulenti per dire alle tue risorse che devono lavorare meglio o di più.

Se hai cercato di fare team costringendoli a sfacchinare in montagna, nel deserto, al mare.

Se infine hai provato ad aumentare i bonus e i premi e quando questo non funzionava hai provato a toglierli.

Se ti sei liberato dei “vecchi” improduttivi spingendo sul prepensionamento,

Se ti sei assicurato i migliori laureati per scoprire che sono improduttivi come i vecchi ma molto più arroganti.

Se hai cercato di far aumentare gli ordini con generose iniezioni di steroidi motivazionali ai venditori che infine scalpitavano come cavalli impazziti…

… e quando ti sei reso conto che i cavalli impazziti sono un pelo fuori di testa hai provato ad aumentare il controllo introducendo carte e procedure che neanche la NASA utilizza prima di un lancio.

Se hai dato a poveri formatori il compito ingrato di migliorare le loro qualità attraverso briefing come: “voglio che siano più decisionisti ma nel rispetto delle direttive, che si prendano la responsabilità ma sempre chiedendo prima a me, vorrei che fossero più intelligenti, furbi, motivati e anche belli e vorrei che ottenessi tutto questo con tre ore massimo di corso”.

Se hai provato a lavorare sulla produttività vietando.

Se hai provato a lavorare sul clima assumendo comici.

Se le hai davvero provate tutte per far funzionare il tuo team…e niente ha funzionato, allora, forse…

Forse…

Il problema sei tu!

mercoledì 20 ottobre 2010

Come trasformare i tuoi collaboratori in zombi in 4 agili mosse


Creare un morto vivente non è affatto difficile. Crearne molti è ancora più facile perché la zombificazione è altamente contagiosa, soprattutto in spazi confinati come quelli di un ufficio, meglio se open space per una più rapida diffusione dell’infezione e l’assenza di spazi in cui ritirarsi e cercare di proteggersi. Ora la domanda è: da dove comincia il processo di trasformazione? Da dove viene il primo contagiosissimo zombie? Secondo il folklore vodoo gli zombi non nascono per caso ma sono creati ed assoggettati da un personaggio chiamato Bokoor. Che in Creolo significa semplicemente, attenzione, manager. Quindi gli zombi sono creati dai manager. Ma come? Quali superpoteri occorrono ai nostri Bokoor per trasformare il gruppo di persone di cui sono a capo in un esercito errante e ciondolante di morti viventi al lavoro? Niente di straordinario, anzi. Non serve un master in stregoneria ad Haiti, farlo è alla portata di tutti e basta seguire alcune semplici regole, o forse dovremmo dire malefici rituali di istupidimento. Ecco alcuni spunti.


Rituale uno. Potentissimo. Basta eseguirlo una volta per zombificare immediatamente due malcapitati che saranno poi chiave nel contagiare tutti gli altri. Si tratta di aspettare un momento in cui un collaboratore sia riuscito ad ottenere un obiettivo straordinario deviando un po’, con creatività ed iniziativa, dalle procedure. Appena individuato il soggetto A occorre indire una riunione in cui ci saranno messe alla berlina le iniziative personali e dove verrà premiato pubblicamente il soggetto B, dalle performance mediocri ma attento esecutore delle procedure. Il cervello di A e B, per motivi diversi, verranno immediatamente contagiati dal malefico torpore e potranno procedere al contagio degli altri (per capire come si diffonde il contagio vedere: http://otherwiseway.blogspot.com/2010_02_01_archive.html )

Rituale due. Genera infezione nell’arco di qualche settimana. E’ il più oneroso per il Bokoor ma anche il più facile da eseguire se il nostro “manager” è un fanatico del controllo oppure è stato promosso in quella posizione per le sue capacità “tecniche” e non ha alcun talento…manageriale appunto. Il maleficio si chiama micro management e si svolge in questo modo: dare istruzioni dettagliate e precisissime ad ogni collaboratore su ogni singola cosa che concerne il loro lavoro. Meglio se iperdettagliati nelle istruzioni. In caso di fretta (del manager) o di difficoltà (del collaboratore ) togliergli il lavoro e farlo in prima persona, senza ovviamente spiegargli nulla.

Rituale tre. Prendere un problema organizzativo dell’ufficio. Indire una solenne riunione in cui si comunica che verrà affrontato e sollecitare i collaboratori a dare idee e suggerimenti. Raccogliere le idee ed i progetti dei collaboratori e quindi…non fare assolutamente nulla. Incluso menzionare il fatto.

Incantesimo quattro (ripetibile a cadenza mensile o settimanale per rafforzare l’effetto): indire periodiche riunioni di almeno due ore durante le quali verranno proiettare dozzine di slides e in cui solo lo speaker, il Bokoor ovviamente, parlerà incessantemente. L’effetto è rafforzato da slides scritte in modo fitto fitto e senza immagini.

Ecco alcune semplici istruzioni che massimizzano le possibilità di creare intorpidimento mentale e trascinamento di piedi. Eppure ce ne sono molte altre. Suggerimenti?

lunedì 4 ottobre 2010

Il tempo delle carote


Immaginiamo di poter eseguire un test con un gruppo di persone. Assegniamo loro una serie di compiti che richiedono attenzione, concentrazione e creatività. Poi dividiamo il gruppo in tre e al primo gruppo promettiamo, nel caso in cui la performance sia ottima, un premio in denaro pari ad una giornata di lavoro, al secondo gruppo un bonus pari a due settimane di lavoro e all’ultimo gruppo un premio pari a 5 mesi di lavoro. Chi avrà la miglior performance secondo voi?


La risposta scioccante (si perché questi studi sono stati fatti davvero*) è che il gruppo a cui era stato promesso il bonus più alto è stato quello che ha avuto la performance peggiore. Per sgombrare il campo da dubbi ed eventuali polemiche legate allo stato di “bisogno” più o meno marcato dei gruppi, l’esperimento è stato ripetuto sia negli Stati Uniti che in India. Con identici risultati.

Secondo lo studio quindi la famosa strategia della carota (e del bastone) non avrebbe alcuna validità. Il che dovrebbe essere relativamente sorprendente: non per forza quello che muove un mulo muove anche gli esseri umani innanzitutto. E poi tutti abbiamo letto sui giornali di grandi manager italiani con bonus multimilionari capaci di potare sistematicamente disastri nelle aziende in cui lavoravano.

Qual è quindi il meccanismo? Gli incentivi economici sono facilmente una spada a doppio taglio. Da una parte motivano le persone a “darsi da fare”…ma allo stesso tempo possono danneggiare le performance perché sono fonte di stress ed ansia da prestazione. Questo a meno che non si tratti di lavori semplici e ripetitivi, facilmente manuali, in cui il concetto della “carota” motivazionale è ancora assolutamente valido.

Insomma, gli studi parlano chiaro. I premi ed il denaro non hanno effetto sulla performance. Eppure sono certo che fermando a caso un campione qualsiasi di persone in una città italiane si avrebbero risposte molto diverse (e spiegando la teoria magari anche qualche insulto). Ed è normale credo. Insomma il denaro è importante e gli studi in realtà continuano a confermarlo sostenendo che paradossalmente per eliminare il problema denaro basterebbe semplicemente pagare le persone abbastanza da evitare che il tema guadagno sia una preoccupazione quotidiana. E fin qui... Una volta però raggiunto quel livello di “serenità” offrire ulteriori premi in denaro per ottenere prestazioni superiori non avrebbe alcun senso. Quello che serve invece è molto meno “terreno”; si tratta anzi di tre fattori che, all’interno di un organizzazione, dovrebbero essere facilmente reperibili, o almeno più reperibili di un superbonus extra. Parliamo di:

-Autonomia (il desiderio di dirigere la nostra vita ed il nostro lavoro)

-Maestria (la voglia di migliorare costantemente in quello che facciamo, di essere bravi e soddisfatti di questo)

-Senso (la consapevolezza che il nostro lavoro è legato ad un motivo o senso, appunto, più alto rispetto al semplice fare soldi)

Eppure quanti manager, nel gestire la motivazione dei collaboratori, sono in grado di investigare e gestire una comunicazione su questi tre temi? E quindi di muoversi concretamente per fare qualcosa? Forse se la carota è stata per così tanto tempo l’unico elemento su cui tutti puntavano è perché non si avevano altre risorse a disposizione? E soprattutto come potrebbe funzionare un mondo in cui, liberi dal “bisogno” di guadagnare, potessimo tutti esprimere il meglio di noi stessi?

Utopie? Probabilmente, ma consiglio la visione di questo filmato particolarissimo e bellissimo in cui tutta la teoria discussa sopra è spiegata egregiamente con anche alcuni esempi concreti.

http://www.youtube.com/watch?v=u6XAPnuFjJc


*Studi condotti da Dan Ariely, Uri Gneezy , George Lowenstein, Nina Mazar

domenica 12 settembre 2010

Esplorando scenari alternative: niente più sedie



Concediamoci un momento di fantascienza aziendale ed immaginiamo che improvvisamente tutte le sedie scompaiano dagli uffici. Certo, subito potrebbe sembrare molto strano. E soprattutto dopo lo sbigottimento iniziale potrebbe nascere la domanda “come faccio adesso a lavorare alla mia scrivania? Fantozzianamente simulando una seduta che non esiste?”. Certamente no. Se sparissero le sedie dovremmo necessariamente modificare le scrivanie sollevando il piano di lavoro all’altezza giusta ed attrezzandole diversamente. Ok. E poi? Come sarebbe il nostro lavoro? Tremendamente faticoso?

Forse no. E dalla fantasia passiamo alla pratica ed alla scienza.
Innanzitutto perché le scrivanie progettate per lavorare in piedi esistono e sono in vendita (un esempio qui: http://www.ergoware.com/hi-hilo-pneumatic-standup-workstation-p-279.html) . E perché spesso ci dimentichiamo una cosa importantissima su di noi, come esseri umani. Dal punto di vista biomeccanico la posizione seduta non è così naturale come sembra, o per lo meno non è naturale restare seduti per così tante ore al giorno. Che ci piaccia o no, il nostro il nostro corpo è fatto e progettato per muoversi, per camminare, correre e cacciare e ancestralmente la posizione seduta serviva solo per un riposo momentaneo e non veniva mantenuta per ore ed ore come facciamo oggi.
Se poi si pensa al “lavorare in ufficio in piedi” come una sorta di follia eccentrica…ricordiamoci che fuori dagli uffici la maggior parte del mondo vive e lavora muovendosi e in piedi.
Quindi, siamo ancora classificati come “homo erectus” e studi moderni e sperimentazioni individuali ci dicono che forse forse stare più in piedi, anche quando scriviamo email, prendiamo appunti o parliamo al telefono potrebbe essere una buona scelta. Chi ha provato sostiene che l’attenzione è maggiore e la fatica non poi così tanta (anche perché non è vietato andare a sedersi di tanto in tanto). Per gli amanti della linea recenti ricerche hanno indagato la “fisiologia dell’inattività” scoprendo che stare a lungo seduti provoca una reazione bel corpo che rallenta il metabolismo, mentre stare in piedi lo accelera a tutto vantaggio del consumo di calorie.

Sarebbe interessante testare l'approccio anche se ci si potrebbe aspettare reazioni un po' ostili. Esiste però una situazione ed un luogo aziendale dove sarebbe facile provare e sicuramente varrebbe la pena di fare lo sforzo: la sala riunioni.
Niente sedie significherebbe:
-nessuno che digita freneticamente sul blackberry con le mani nascoste sotto il piano scrivania
-nessuno che legge le ultime news sul laptop
-nessuno che scarabocchia gli ultimi capolavori dell’arte astratta sul blocco
-tutti che cooperano in modo che il meeting finisca il più velocemente possibile.
Chi ha provato sostiene che il tempo medio di una riunione si riduce del 50% circa.

Sarebbe un bel risultato no?

martedì 27 luglio 2010

Del perché le vacanze fanno male (a qualcuno)



Si chiama Holiday Blues e non è, evidentemente, un pezzo musicale. Si tratta invece del simpatico nome affibbiato dagli statunitensi ad una forma di depressione post vacanza che può andare da pochi giorni a una-due settimane. Alcuni sintomi sono:

Insonnia Cefalee Alterazioni dell’appetito Intolleranza ed irritabilità verso tutto e tutti Spossatezza cronica Calo della concentrazione Ansia da prestazione lavorativa

A prima vista sembrerebbe più che normale sentirsi a disagio nel momento in cui sostituiamo il bel cielo terso del mare a quello latte sporco di Milano ed il fruscio delle onde o la musica delle nostre serate si trasformano nel clangore dei tram e negli strombettii dei clacson e spiagge e palme cambiano nell’arredo del nostro ufficio. Eppure è un fenomeno che non riguarda solo chi ha un impiego ed è costretto a tornare alla routine o allo stress del traffico, ma riguarda tutti i vacanzieri, compresi i bambini, gli studenti, e gli anziani. Studi recenti dicono che la sindrome colpisce oltre il 30% degli italiani.

Qual è il punto interessante? Secondo me è legato ad un altro dato: ovvero che i soggetti più predisposti a soffrire di questa sindrome sono quelli che hanno caricato le vacanze di maggiori aspettative. Insomma pare che molti aspettino e vivano le vacanze come il momento del “riscatto” da un anno di frustrazione, fatica e grigiore. Aspettandosi di vivere esperienze entusiasmanti, conoscere gente speciale, provare emozioni intense e sentirsi speciali. Ovviamente nel momento in cui l’esperienza non si dimostra all’altezza tutto crolla e si rientra più stanchi e frustrati di prima. Ma perché ci si riduce così? Perché la necessità di condensare in 15 giorni tutte queste aspettative e tutti questi desideri? Perché insomma la vacanza deve diventare il momento programmato in cui finalmente possiamo e dobbiamo essere felici e per cui magari ci siamo preparati con largo anticipo terrorizzati anche dallo spauracchio della infame “prova costume”? Il meccanismo è perverso e le cause sono evidentemente due:

-da un lato il solito modernissimo squilibrio tra vita privata e lavoro (a vantaggio di quest’ultimo) e una difficoltà sempre più grande a trovare il nostro centro nel quotidiano

-dall’’altro l’incapacità di essere veramente “disponibili” all’esperienza della vacanza

Cosa significa quest’ultimo punto? Lo spiega bene la famosa storia zen della tazza di tè (una versione qui: http://web.ticino.com/cobra/zen/stories/a068%20Una%20tazza%20di%20te%27.html). Se la nostra tazza è troppo piena di progetti, aspettative, desideri, non resterà spazio per le opportunità reali che la nostra agognata vacanza ci pone di fronte…e come già detto, quando siamo troppo focalizzati su qualcosa, perdiamo di vista tutto il resto. Tra l’altro, la parola vacanza viene proprio da “vuoto” e questo dovrebbe essere già un indicazione.

Quali consigli ci potrebbe dare quindi il solito maestro zen per un approccio “sano” alle ferie? Innanzitutto di considerare il vuoto come una vera risorsa, da non riempire a tutti i costi. Quindi di essere il più possibile nel momento, qualsiasi esso sia. Rallentare, non per “riposare” fantozzianamente ma per ricominciare ad accorgersi della ricchezza attorno a noi. Scegliere la semplicità e soprattutto non settare irrealistiche aspettative. E neppure limiti. Quasi sempre (e tutti lo sanno), le esperienze più ricche sono quelle inaspettate.

Buon “vuoto” a tutti quindi!

martedì 6 luglio 2010

Calore e cravatte: il burka occidentale



Estate. Una mattina qualsiasi a Milano. Temperatura di 35° e 90% di umidità.
Un ufficio: moquette grigia, mobili sobri e funzionali.
Il nostro eroe, chiamiamolo Evaristo, siede alla scrivania madido di sudore dopo la calda infusione negli umori di altri meschini come lui stipati in tram o metropolitane quasi mai condizionati. Toglie la giacca esponendo le chiazze scure che gli decorano le ascelle e finalmente comincia a rilassarsi sotto il getto dell'aria condizionata. Normalmente il sollievo è di poca durata, il poro riottoso comincia appena a chiudersi, che compare la collega Irma inferocita che, prima ancora di salutare, proclama: "ma sono impazziti? Ora chiamo l'assistenza e faccio abbassare l'aria condizionata".
Visto che per qualche legge non scritta chi ha freddo ha sempre ragione Evaristo inghiotte e si rassegna a sudare per il resto della giornata.

Perchè Evaristo si trova in questa situazione?

Perchè l'abbigliamento del nostro eroe consiste in:
biancheria intima, calze scure al ginocchio, scarpe allacciate nere, pantalone in fresco (???) di lana blu, camicia a maniche lunghe, cravatta e, se è un duro e puro, canottiera di sotto per assorbire il sudore. La giacca viene eliminata quanto prima e finisce gagliardamente appesa da qualche parte ed esplica la unica funzione di passeggero non pagante (viene indossata prima di uscire, tolta se possibile durante il tragitto ed immediatamente appesa da qualche parte in ufficio. Rimessa prima di uscire, tolta nel tragitto a casa e riposta nell’armadio). L'abbigliamento della dolce Irma invece consiste di:
sandalo aperto allacciato (praticamente una suola e alcune stringhe), tubino di cotone o simili senza maniche e mezzo chilo di bigiotteria rumorosa. E quindi lei giustamente ha freddo...lui giustamente ha caldo. E come lui in tanti, tantissimi, stipati in uffici resi compatibili con la vita umana grazie ad enormi split che pompano nella città arroventata una quantità enorme di metri cubi di aria calda. E rendendo la città molto molto simile ad un forno inquinato.

Si sa l’abito maschile è una convenzione sociale comunemente accettata e condivisa in determinati ambienti. Tanto accettata che molti non provano neanche per scherzo a metterla in discussione. Come molte convezioni tra l’altro non risponde a nessun criterio scientifico, utilitaristico o naturalistico. Insomma non ha alcun senso se non nell’essere appunto una convenzione. Con alcune controindicazioni piuttosto serie.

Innanzitutto la diversità di abbigliamento dei generi come visto sopra crea un disallineamento tra le aspettative di utilizzo dell’aria condizionata. E provoca conflitti e tensioni: secondo una ricerca svolta da Canon Europe & Icm Research i problemi con il condizionamento sono responsabili del 43% dello stress che accumuliamo in ufficio.
Quindi è un comportamento anti ecologico. E’ stato dimostrato che, ad esempio, togliere definitivamente la cravatta porta ad una minor necessità di refrigerazione di 1-2 °. Il che sembra poco ma in realtà studi ed esperimenti (come quelli fatti dall’ENI: vedi http://www.rinnovabili.it/per-risparmiare-energia-eni-si-toglie-la-cravatta-701343 ) dimostrano che questo grado di differenza ha un grosso impatto su consumi energetici ed emissione di inquinanti nell’atmosfera. Cosa si potrebbe ottenere eliminando di più?

Astraendosi dal quotidiano è evidente che l’abito di lana sta ai 35° di temperatura come pantaloncini corti e maglietta stanno ad una giornata di neve. E allora perché è così difficile liberarsi di questo vecchi, vecchissimo simbolo di eleganza e professionalità maschile quando le condizioni climatiche lo rendono evidentemente “sbagliato”? Gli uomini (maschi) si sa hanno poca fantasia. Ed uno dei motivi è che rifugiarsi nel consueto e consolante abito deresponsabilizza dalla necessità di accendere iniziativa e creatività. E qualcuno, testimonianza raccolta da chi scrive, ha anche difficoltà a sentirsi autorevole e credibile se non è coperto da almeno tre strati di stoffa. Potere dei simboli. Potere della conformità. E dell’insicurezza. Mi vengono in mente a questo punto due domande.

Come possiamo pensare di fare passi significativi per il progresso del pianeta quando non siamo in grado di mettere in discussione una cosa semplice come il dress code estivo?

E soprattutto, tutti questi meravigliosi stilisti orgoglio del nostro paese e maestri di stile, piuttosto che inventarsi nuove forme di giarrettiere borchiate per sostenere stivali da cowboy in pitonato fucsia e collari sadomaso (da uomo ovviamente, e che si vedono solo alle sfilate) non possono impegnarsi un attimo e magari regalare al mondo un modo, sempre elegante, ma più fresco di vestirsi?

Forse un giorno i posteri guarderanno al modo in cui andiamo vestiti d'estate come oggi guardiamo alle parrucche incipriate portate nel ‘700.

mercoledì 23 giugno 2010

Shopping for genius



A chi non piacerebbe poter acquistare due semplici strumenti in grado di garantire un aumento esponenziale della creatività, della capacità di risolvere i problemi, di migliorare se stessi e di avere una visione lucida del mondo? La buona notizia è che questi strumenti sono già in commercio, da sempre, e disponibili ad un prezzo irrisorio…in cartoleria.
Facciamo un passo indietro: cosa avevano infatti in comune persone come Isaac Newton, Luis Sepulveda, Thomas Jefferson, Johann Sebastian Bach, Bruce Chatwin, Michael Faraday, Leonardo Da Vinci? Tutti avevano l’abitudine di usare quotidianamente un taccuino nel quale scrivevano e disegnavano in modo compulsivo. Inaspettatamente, anche quando si trattava di scienziati, quelle note non erano ben strutturate ma piuttosto una collezione di appunti, disegni, pensieri, persino poesie…
Erano geniali perché scrivevano o scrivevano perché erano geniali? Difficile a dirsi. Ma è stato dimostrato che questa tecnica di scrittura ha un potere eccezionale.
Una delle ragioni è che secondo la prima legge della psicologia comportamentale ogni volta che scriviamo una percezione o un’idea rinforziamo il comportamento di essere percettivi e creativi. Ogni volta che non lo facciamo rinforziamo l’opposto, ovvero il non essere percettivi e creativi.
Inoltre il potere della scrittura è legato al modo in cui lavora la nostra mente. Il nostro subconscio genera 24 ore al giorno un costante flusso di immagini, idee, sensazioni sottili e molte di queste sono piene di significato ed intuizioni. Purtroppo siamo condizionati ad ignorarle. E il ritmo frenetico a cui siamo sottoposti le fa svanire rapidamente. Così queste intuizioni che “emergono” per breve tempo ritornano nel profondo del nostro subconscio e sono perdute. A meno che non troviamo un modo per catturarle e riutilizzarle.
Questo può essere fatto facilmente scrivendo nel momento esatto in cui appaiono. Senza struttura, casualmente, anche disordinatamente. Scorrendo i nostri appunti potremo (ri) accedere alla cassaforte delle nostre intuizioni e anche beneficiare di un effetto che gli Induisti chiamano "drastha". Che significa “testimone” o “osservatore”. Potremo in sintesi essere spettatori del nostro delicato e sottile flusso di percezioni e aumentare la nostra autoconsapevolezza.
Un taccuino (e ovviamente una penna o una matita) può essere un alleato preziosissimo, economico, facile da trasportare e utile. Come usarlo quindi? Semplicemente scrivendoci sopra ogni idea, immagine, frase, parola, domanda che ci viene in mente. Senza essere selettivi o cercare uno schema. Per una generazione come la nostra abituata a scrivere solo con il computer sembrerà strano ed anche difficile, ma usare il computer non funziona allo stesso modo perché obbliga ad una struttura che per definizione il nostro flusso creativo non ha (è una delle ragioni per cui le mappe mentali si fanno preferibilmente a mano). Tra l’altro conservare queste note e rileggerle a distanza di anni può essere un attività meravigliosa e illuminante…un modo per riscoprire noi stessi e la nostra storia da un punto di vista inconsueto.
Provare per credere!

domenica 6 giugno 2010

SMS, marijuana, email, riunioni e noia


Evaristo guida verso il posto di lavoro. E nel frattempo effettua un paio di telefonate e risponde a tre sms. Arriva fortunatamente illeso in ufficio alle 9.30 e si precipita in sala riunioni dove il meeting schedulato per iniziare alle ore 9.00 è già iniziato. Da dieci minuti (siamo evidentemente in Italia). Appena entrato apre il pc e mentre il “chairman” è ancora impegnato con l'introduzione effettua il login. Quindici minuti dopo risponde ad un paio di mail. Venti minuti dopo lascia un attimo la sala per rispondere alla telefonata di un cliente. Prima di rientrare ricontrolla le mail dal blackbarry. Alle 11.00 è di nuovo alla sua scrivania. Entra un collaboratore a parlargli di una questione e Evaristo lo ascolta distrattamente rispondendo a nuove email. Alle dodici Evaristo entra in una nuova riunione in cui sarà effettuata una presentazione da parte del responsabile della produzione. Riesce a leggere 10 mail e rispondere a 4 di queste. Inoltre risponde brevemente a due telefonate. All’ora di pranzo il quoziente intellettivo (IQ) di Evaristo ha subito una decrescita di dieci punti. Almeno secondo le ricerche fatte dal Dr Glenn Wilson (http://news.bbc.co.uk/2/hi/uk_news/4471607.stm) che sostiene che l’”infomania” sia più dannosa della marijuana per il nostro cervello.

Viviamo in un era di iperinformazione. Si sa. E questo causa problemi di vario tipo. Anche e questo è noto. Un fenomeno è chiamato “information overload” e inibisce le nostre capacità decisionali. Un altro effetto è legato alla pressione del tempo: troppe troppe cose da fare tutte assieme e lo sviluppo di un nuovo falso talento: il multitasking. Falso perché altre ricerche provano come l’efficienza totale diminuisca a favore dello stress, altra vera piaga dei giorni nostri.
Ora mettiamo che Evaristo si renda conto del problema e scopra come, facendo una cosa alla volta non solo è più efficiente e concentrato, meno stressato e più capace di godere il presente. Inoltre intuisca che potrebbe essere un manager migliore ascoltando con attenzione i collaboratori. Ed un college migliore non frustrando gli speakers delle riunioni distraendosi, picchiettando sulla tastiera e alzandosi in continuazione. Mettiamo che Evaristo si renda conto in sintesi che è arrivato il momento, in questi tempi caotici, di riappropriarsi e di governare la nostra energia.
E tanto per cominciare decida di spegnere pc e cellulare durante la prossima riunione. Per scoprire che…si annoia a morte!!! Si perché le riunioni di lavoro tendenzialmente sono mal costruite, mal preparate e mal gestite. Cominciano tardi e finiscono ancora più tardi. E per lo più solo il 10% di quello di cui si parla interessa veramente al nostro eroe. E le presentazioni sono estenuanti sequenze di fitte slides piene di informazioni irrilevanti e dati non fondamentali, mal focalizzate e mal animate. E lunghe. Lunghissime. Nel mondo degli uomini tutto è collegato: motivazione, tempo, stress, efficacia, controllo, serenità, lungimiranza, pace interiore. E appare sempre più evidente l’esigenza di cambiare in modo drastico e contemporaneamente organizzazione, comportamenti e stile. Semplificando e liberando energie. Tre parole che potrebbero fare da guida in questo processo vengono dal lontano Giappone: Kanso, Shizen, Shibumi. Ovvero: semplicità, naturalezza, eleganza. Ne riparleremo.

sabato 15 maggio 2010

Trappole per scimmie (e non solo)



In Asia e in altre parti del mondo esiste un metodo ingegnoso per catturare le scimmie. Si prende una zucca vuota o qualcosa di analogo e si fa un foro in cui possa agilmente passare la mano aperta della bestiola. Poi si riempie la zucca di riso o altre leccornie e la si fissa ad un albero. La scimmia infilerà la mano, afferrerà quanto più cibo possibile e a quel punto…resterà intrappolata. Si perché il foro non sarà abbastanza grande per lasciare passare il pugno chiuso e la scimmia non prenderà mai in considerazione l’idea di aprire la mano e lasciare il cibo. Non è quindi la trappola in se a bloccare la scimmia quanto il suo rigido sistema di valori.

Passando dalle scimmie pelose a quelle “nude” (noi), non cambia molto. Siamo vittima di “trappole per scimmie” tutti i giorni e per lo più non ce ne accorgiamo. La storia e la metafora apre la strada ad alcune domande:
Quali sono le cose a cui ci aggrappiamo disperatamente e che non riusciamo nemmeno ad immaginare di mollare?
Come mai ci è più facile attribuire la responsabilità delle proprie difficoltà a qualcosa di esterno (la trappola) piuttosto che a qualcosa di interno (il nostro modo di pensare e quindi agire)?
Quali sono le trappole per scimmie più comuni in cui rimaniamo intrappolati come singoli, squadra, azienda e perché no paese e umanità intera?
E soprattutto, se fossimo tutti davvero liberi e non ce ne accorgessimo?

domenica 25 aprile 2010

La creatività nasce dall'ansia



"Non pretendiamo che le cose cambino se continuiamo a farle nello stesso modo.
La crisi è la miglior cosa che possa accadere a persone e interi paesi perché è proprio la crisi a portare il progresso. La creatività nasce dall' ansia, come il giorno nasce dalla notte oscura. È nella crisi che nasce l' inventiva, le scoperte e le grandi strategie. Chi supera la crisi supera se stesso senza essere superato.
Chi attribuisce le sue sconfitte e i suoi errori alla crisi, violenta il proprio talento e rispetta più i problemi che le soluzioni. La vera crisi è la crisi dell' incompetenza. Lo sbaglio delle persone e dei paesi è la pigrizia nel trovare soluzioni. Senza crisi non ci sono sfide, senza sfide la vita è routine, una lenta agonia. Senza crisi non ci sono meriti. E' nella crisi che il meglio di ognuno di noi affiora perché senza crisi qualsiasi vento è una carezza. Parlare di crisi è creare movimento; adagiarsi su di essa vuol dire esaltare il conformismo.
Invece di questo, lavoriamo duro! L' unica crisi minacciosa è la tragedia di non voler lottare per superarla…”


Ecco cosa diceva Albert Einstein circa 60 anni fa. Bello e attuale. Forse perché alla fine i problemi delle persone sono sempre gli stessi. E il loro atteggiamento può, anni fa come oggi, fare la differenza.

domenica 11 aprile 2010

Piccolo è il nuovo grande



Non possiamo fare grandi cose, solo piccolo cose con grande amore.
Madre Teresa


E’ una domanda classica: “quanto è grande la vostra azienda?”. Domanda indipendente dal fatto che la vostra azienda sia davvero “vostra” oppure semplicemente ci lavoriate. Ed è classica la reazione “wow” se la risposta è “siamo grandi, 1000 persone”. Tipico ragionamento anni 80 in cui il valore è rappresentato dal “quanto”. Peccato che i tempi siano leggermente cambiati e forse possiamo cominciare a liberarci della machistica ossessione della “grandezza” per ragionare in termini diversi. Soprattutto per gli uomini, un passaggio difficilissimo :-)

Ma cosa perderemmo nel passaggio da un’organizzazione grande ad una piccola?
Innanzitutto la possibilità di passare anni ed anni nell’ombra senza prenderci davvero la responsabilità del nostro lavoro e di dare sempre la colpa a qualcun altro. La possibilità di sentirci un piccolo ingranaggio in una macchina vastissima e quindi di poterci lamentare degli ingranaggi grandi usando l’atteggiamento “io non ci posso fare niente”. E di fronte ai clienti la possibilità di non essere ossessionati da un rapporto emotivamente impegnativo sempre con le solite persone che poi “pretendono” e usare la facile scappatoia di sfuggire loro, facendoli rimbalzare tra mille uffici o stordirli con la giustificazione di rigide procedure. E poi se si è grandi si può sempre tornare piccoli, basta “tagliare”.
A parte gli scherzi, se da una parte le piccole aziende sognano di diventare grandi, spesso le grandi cercano il graal della leggerezza e della flessibilità. Che potranno trovare solo in piccolissima parte…come dire che anche se un elefante si mette a dieta e comincia a fare stretching tutti i giorni, sarà comunque meno abile ad arrampicarsi sugli alberi di una scimmia.
E oltre alla solita ossessione per il prezzo per i clienti, ci sono due altri imperativi da soddisfare: flessibilità e fiducia. Flessibilità perché come già ripetuto da molte fonti, la velocità del cambiamento è esponenziale. Fiducia perché data la velocità e complessità del business, un cliente evita volentieri di dover stare dietro anche ai fornitori per assicurarsi qualità tempi e servizi congrui.
Come si conquista dunque la fiducia? Con la relazione con le persone e non inserendo codici in una pagina web o scandendo le parole ad un operatore automatico. E comunque anche parlare con un impiegato o dirigente che sente su di sé il fardello di un imminente processo di “ridimensionamento” non comunica una buona impressione. Ricordiamoci che le emozioni passano anche attraverso la cornetta.

Questa rifocalizzazione sul piccolo pare sia avvenuta soprattutto nel paese tradizionalmente del “grande”: gli Stati Uniti. Di sicuro la recente crisi finanziaria ha fatto perdere fiducia nelle grandi organizzazioni e infatti secondo alcuni sondaggi alla domanda “cosa ci porterà ad un futuro migliore?” gli “small business” sono al primo posto seguiti da tecnologia e con un grosso distacco dai seguenti “governo” e “grandi aziende” Come diceva Prince “Sign of the times”.
Basta quindi con questa ossessione per la grandezza (che per altro si riflette anche nelle dimensioni delle auto più desiderate). Non che crescere sia un male, ma il "come" forse è diventato più importante del "cosa e del quanto" e in certi casi essere e restare piccoli potrebbe essere addirittura più di un passaggio verso qualcosa d’altro.

Potrebbe essere l’obiettivo per cominciare davvero a fare “altrimenti”.

domenica 4 aprile 2010

Ancora sugli obiettivi e la ricerca della via



Semplificando possiamo dire che il focus sulla "destinazione" è una fissazione tipicamente occidentale. Essere nel momento e concentrarci sul cammino una visione forse più orientale. La tensione è antica e attualissima secondo me. Ed è descritta magnificamente da un brano di Pirsing nel famosissimo "Lo zen e l'arte della manutenzione della motocicletta"

"Vivere soltanto in funzione di una meta futura è sciocco. E' sui fianchi delle montagne, non sulla cima, che si sviluppa la vita. Ma evidentemente senza la cima non si possono avere i fianchi. E' la cima che determina i fianchi. E così saliamo..."

Che si possano riconcilare in qualche modo le due visioni del mondo?
Buona Pasqua a tutti!

domenica 28 marzo 2010

Piccoli comici spaventati managers




Un primo segnale è dato dalla loro reazione all’invito di partecipare (a una riunione, ad un evento, a un corso) in abbigliamento business casual. Vanno in crisi, si arrabbiano anche. E non hanno la più pallida idea di come arrangiarsi. Ecco, ci sono persone e persone. Ci sono managers e managers. E c’è una categoria dei medesimi che riconosco, ma faccio fatica a descrivere o etichettare.

Sono quelli che privati dell’ ortodosso abito si sentono nudi, delegittimati, esposti, spaesati, senza più riferimenti. E che all’invito “business casual” reagiscono secondo due opposti. O rimettono il solito abito togliendo semplicemente la cravatta, oppure sfoggiano jeans strappati, scarpe da basket retaggio degli anni 80, gillet di pelle e altre diavolerie. E si sentono pesantemente a disagio comunque. Si dice che il lavoro principale di un manager sia di gestire il “cambiamento”; se il mondo del business fosse ordinato e regolato da leggi immutabili, che bisogno ci sarebbe di loro? Ecco, questi strapagati professionisti, al timone di aziende o anche piccoli gruppi di persone, vanno in confusione dovendo cambiare il loro consolidato “dress code”. Siamo in una botte di ferro. Un altro segnale è dato dal loro rapporto feticista con l’auto aziendale che pare sia l’evidente manifestazione concreta del loro status. Ora capisco che avere una bella audi faccia più piacere di una panda van (per nulla togliere alla simpaticissima panda). Ma non è questo il livello a cui si manifesta la tensione.

Esempio (vissuto): il manager è al telefono, cammina nervosamente avanti e indietro, è rosso in volto e gesticola. Chiude la telefonata e mi guarda con sguardo complice e corrucciato. Silenzio. “Capisci come siamo messi in questa azienda? Non andiamo da nessuna parte in un organizzazione tanto ottusa, rigida, priva di flessibilità”. Io penso a qualche sfida strategica fallita, alla concorrenza che sta guadagnando enormi quote di mercato, a tagli dei costi sovraumani. Il manager prosegue “dovevamo cambiare l’auto aziendale e avevo chiesto la “grandphyton 2000 special”, quella con il tettuccio apribile. Ora, mi dicono che la “grandphyton 2000 special” è di una categoria superiore, non posso averla, e mi obbligano a prendere la grandphyton 2000 normale. Senza tettuccio. Ti rendi conto?”. Non mi rendo conto. Il resto della giornata viene dedicato alla rabbia, alla recriminazione e a mille telefonate a capi e colleghi per cercare di risolvere l’annoso problema. Mi sembra un’ottima allocazione di tempo ed energie.

Sono loro, quei tipi di managers che appena ti incontrano ti squadrano da capo a piedi per capire se il tuo abito è all’altezza. Che ti guardano le scarpe. Che giudicano il risultato di una riunione dalla cena e dal ristorante. E che se sono stati costretti a partecipare ad un corso (se fosse per loro ovviamente non c’è ne sarebbe alcun bisogno) apprezzano l’intrattenimento e mai la messa in gioco. Che amano fare regali ai loro collaboratori, essere popolari, ma che se c’è un rimprovero o una situazione spinosa da gestire, corrono a chiedere aiuto al loro diretto responsabile. Che spettegolano. Che litigano. Che criticano sempre e comunque la loro azienda e sognano, sempre, di lavorare per un'altra, con colleghi più simpatici, auto più lussuose e telefonini più prestigiosi. E che di fronte ai problemi tutto fanno tranne che fermarsi a pensare, elaborare una strategia e quindi agire con coerenza e coraggio.

Piccoli comici spaventati managers. Senza di loro tutti noi che ci occupiamo di formazione e coaching saremmo senza lavoro.

domenica 21 marzo 2010

Gli obiettivi, Deming e la ricerca della Via



Per chi non lo conoscesse, Deming è è stato un consulente Statunitense famoso per il suo lavoro sulla qualità. In particolare aiutò l’industria giapponese a diventare supercompetitiva insegnando come con l'adozione di opportuni principi di gestione, le aziende possono aumentare la qualità e contemporaneamente ridurre i costi e aumentando la fidelizzazione dei clienti. La chiave è quella di praticare un continuo miglioramento (in giapponese "Kaizen"). Il peso di quest’uomo nella storia dell’industria è stato fondamentale, anche se solo alla fine della sua carriera il suo valore è stato riconosciuto in patria. Deming identificava 14 punti fondamentali che i “total quality managers” avrebbero dovuto seguire. Il punto 11 suggeriva, in sintesi, di eliminare il “management by objectives”. Ebbene si, uno dei più grandi geni della storia industriale sosteneva come ogni tecnica motivazionale con eccessivo focus sulla “quantità” fosse organizzativamente disfunzionale. Attimo di silenzio.
Chiunque abbia ricevuto un minimo di formazione “manageriale” potrebbe sentirsi destabilizzato dalle affermazioni di Deming poiché sarà sicuramente stato indottrinato sulla importanza di un “management by objectives”. Se alle persone non vengono dati obiettivi quantitativi non è possibile il controllo, loro non saranno motivate, l’annual appraisal non avrà senso etc etc. Il discorso in realtà diventa più ampio e filosofico. Anche perché un modello di pensiero basato sulla “quantità” è alla base del pensiero occidentale.
Ma scendiamo di livello vediamo con un esempio concreto come concentrarci solo sugli obiettivi può essere disfunzionale. Immaginiamo Evaristo, un giovane commerciale assunto da poco. La sua principale attività è quella di fissare appuntamenti telefonici con potenziali clienti che poi dovrà incontrare per vendere il suo prodotto. Il suo capo giustamente si siede con lui e discutono del come e del quanto. In particolare si concentrano su quante telefonate al giorno Evaristo potrà fare e conseguentemente quanti appuntamenti ci si aspetta che prenda entro la fine del mese. Un mese dopo i due si re incontrano e il capo verifica immediatamente il numero di appuntamenti presi. Evaristo mogio dichiara di non ha raggiunto l’obiettivo e il capo si mostra indispettito e mette in discussione la sua “motivazione”. Infine vengono fissati nuovi obiettivi per il mese successivo. Nuovo incontro e Evaristo è raggiante. Stavolta c’è l’ha fatta; complimenti del capo e tutti sono felici e contenti. Qual è il problema? Che per raggiungere l’obiettivo ha preso appuntamenti con “cani e porci” (passatemi il francesismo), insomma con aziende con palese potenzialità commerciale nulla. Appuntamenti a cui comunque dovrà andare e che impegneranno moltissimo tempo. Sprecato. Dove è il problema qui? Nella capacità o motivazione del ragazzo nel prendere appuntamenti? Forse no perché per raggiungere l’obiettivo ha comunque dovuto telefonare e far valere se sue capacità comunicazionali al telefono. E allora forse ci si sarebbe dovuti concentrare meglio sul processo: innanzitutto verificando “on the job” la possibilità di migliorare la strategia di approccio di Evaristo ai clienti con potenziale. E se non si fossero evidenziate aree critiche pensare di rimettere in discussione tutta la strategia, magari modificando la comunicazione dell’azienda all’esterno, cambiando la targettizzazione etc etc. Insomma un lavoro molto più impegnativo sia a livello di tempo che di “capacità di messa in discussione” del manager in questione. Molto più comodo contare il numero di appuntamenti. Risultato: il processo disfunzionale di approccio al mercato rimane tale e quale, nessun apprendimento organizzativo e un gran spreco di energie.
Insomma, gli obiettivi vanno bene, ma attenzione perché possono portarci fuori strada. Come ci fa capire in modo fulminante questa antica storiella orientale.

Un giovane attraversò tutto il Giappone per raggiungere una famosa palestra di arti marziali. Arrivato al cospetto del maestro disse “voglio studiare con te e diventare il più abile combattente del Giappone. Quanto tempo mi ci vorrà?”. “Almeno dieci anni” rispose il maestro. “E se studiassi il doppio dei tuoi allievi?” continuo il giovane. “Allora ci vorranno vent’anni”, rispose il maestro. “Vent’anni? E se io mi mettessi a praticare giorno e note con tutte le mie forze?”. “Trent’anni”, fece il maestro. “Ma come è possibile che ogni volta che ti dico che ci metterò più impegno, mi dici che ci vorrà più tempo?”, chiese il ragazzo sconcertato. “La risposta è semplice. Se un occhio è continuamente fisso sulla destinazione finale, resterà solo l’altro occhio per cercare la Via”.

domenica 14 marzo 2010

“Nel magico mondo del feedback” parte seconda



Dicevamo che la cultura italiana non è troppo focalizzata sulla comunicazione chiara e diretta. Non è sempre vero; il problema è che tendiamo facilmente a cadere negli eccessi. Capita di incontrare persone che dichiarano con orgoglio “io non ho peli sulla lingua e se devo dire qualcosa la dico”. Bene. Salvo il fatto che questi “terminator” forse qualche pelucchio farebbero bene ad averlo…poiché si scopre che animati da un sacro fuoco di distruzione si aggirano come condor in cerca di preda e si scagliano su qualsiasi cosa, attività o comportamento che a loro non piace. E di solito a loro non piacciono moltissime cose. Risultato? Vengono schivati come la peste e se parliamo di un ambiente di lavoro installano nei colleghi o collaboratori l’abitudine alla furtività. Evidentemente a nessuno piace essere tempestato di micro rimproveri, commenti negativi, feedback depressivi e per un naturale istinto di sopravvivenza si tende a fornire meno appigli possibili. Risultato: il terminator non avrà mai un quadro chiaro e completo dello stato delle cose e dei processi e i suoi feedback invece di sortire un effetto positivo saranno vissuti come un inevitabile pioggia sporca da asciugarsi da addosso il più in fretta possibile. Se poi in azienda i terminator sono molti avremo l’effetto Otis Reddings che in “Sittin On The Dock Of The Bay” diceva:

"I cant do what ten people tell me to do, so I guess I'll remain the same"

In sintesi: tantissimi feedback da direzioni diverse, nessun cambiamento.

L’altra faccia della medaglia è ovviamente quella di una comunicazione poco chiara e fumosa. Risultato? Chi fa stupidaggini o semplicemente sbaglia perché sta imparando non avrà mai modo di migliorare e chi si accorge delle stupidaggini e non dice niente si porterà a casa gran mal di pancia e accumulerà frustrazione.
Cosa serve allora per sviluppare una cultura del feedback equilibrata e costruttiva? Ecco alcuni punti…

1) Aver capito il senso di questo strumento
2) Avere la motivazione di uscire un poco dalla nostra zona di comfort
3) Avere gli strumenti comunicazionali per farlo al meglio
4) Avere la giusta intenzione

In particolare questo ultimo punto è forse il più importante. Cosa significa “la giusta intenzione?”
In sintesi, se diamo feedback per :
• Avere ragione - Averla vinta - Apparire migliore – Punire -Sfogarci

allora non c’è tecnica di comunicazione che regga. L’altro percepirà comunque la nostra intenzione e il risultato sarà comunque negativo per entrambi. Se invece decidiamo di dare feedback per:

• Ottenere risultati - Rinforzare la relazione - Essere onesti –Aiutare

allora forse possiamo sperare che, nonostante qualche resistenza inevitabile, il messaggio passi e che alla fine le persone coinvolte nel processo possano evolvere ad un livello di relazione-comunicazione più alto. Ce la potremo mai fare? A volte ho dei dubbi…come quando dopo un’intera giornata di discussione sul tema un non più giovanissimo manager decise di dare un feedback ad un collega in questa forma:

“caro collega, non ti dico niente perché ho troppa stima di te. Altrimenti dovrei mandarti a f@#k/o”.

Sono soddisfazioni!

domenica 7 marzo 2010

Aziendal graffiti parte terza: dalle caverne a oggi ovvero il potere delle storie



"Come mai Salomone era riconosciuto come il più saggio degli uomini? Perché conosceva più storie degli altri. Grattando la superficie di un tipico consiglio di amministrazione scopriamo di essere ancora uomini delle caverne con la valigetta, ansiosi di ascoltare storie raccontate da una persona saggia”. Alan Kay, vice presidente della Walt Disney

Nel post precedente ci si chiedeva quale fosse il principale strumento usato dagli esseri umani per fondare e trasmettere la cultura di un’organizzazione. La risposta è forse molto semplice: tramite le storie che raccontiamo. Ovviamente a voce.
Ci sono molti modi di interpretare questo fenomeno “naturale” all’interno delle organizzazioni. Ad esempio secondo Jim March di Stanford i pettegolezzi non sono poi così male. Già perché, al di la di qualche inevitabile malignità non sono che notizie che devi sapere su persone che devi conoscere. Un mezzo inevitabile e, forse l’unico disponibile, per capire se un’altra persona è affidabile. Ma le storie sono più di questo. Le storie sul lavoro stesso, e sulla sua natura hanno provato essere più efficaci della documentazione scritta per aiutare i colleghi a risolvere problemi. Innanzitutto perché è più facile capire una persona che spiega un processo piuttosto che leggere una documentazione tecnica, e soprattutto perché sentiamo il bisogno di interazione, di fare domande, di ascoltare consigli.
E ancora le “favole” e i “miti” trasmessi oralmente hanno un eccezionale potere di comunicazione non solo internamente ad una organizzazione ma anche esternamente, verso i clienti, i partner ed anche i concorrenti. Questo perché si rivolgono ad entrambe le parti della mente: quella razionale e quella emotiva. Inoltre parlando di cambiamento o sfide future le storie aiutano a creare una mappa per disegnare la strada da percorrere. Non che gli aspetti logici e razionali non servano, ma trascurare quelli emotivi sarebbe un errore perché sappiamo benissimo il ruolo delle emozioni nei nostri processi decisionali. Tra l’altro il fenomeno del raccontare non va innescato, fa parte della natura umana ed è inevitabile; il punto non è raccontare, il punto è stare a sentire e far leva su un ricchissimo capitale di conoscenza già disponibile.
In sintesi le storie sono un mezzo meraviglioso poiché incorporano in un formato compatto informazioni, conoscenza, contesto ed emozioni. Creano conoscenza, cultura e danno direzione. Oggi come secoli fa, quando passavamo le serate attorno al confortante fuoco che ci proteggeva dalle fiere ed imparavamo a diventare uomini e le regole della nostra società dalle parole dei vecchi saggi.
Il concetto non è una novità e infatti molte organizzazioni si stanno muovendo per raccogliere, trasmettere, creare storie per comunicare internamente ed esternamente. E funziona. Ovviamente a patto di usare le “giuste parole” come racconta in modo meraviglioso Benigni in uno spezzone del film “La tigre e la neve” (http://www.youtube.com/watch?v=IpQHcCisKEA).

Ma questa è un’altra storia :-)

domenica 28 febbraio 2010

Aziendal graffiti parte seconda (una riflessione sulle scimmie)



Se la cultura di un organizzazione, come detto nel post precedente, non è quella appesa ai muri tramite i soliti slogan o dichiarazioni di principi o carte dei valori, allora dov’è? E soprattutto, come si forma? Evidentemente non grazie all’ausilio della parola scritta date le considerazioni già fatte. Una possibile risposta potrebbe venire dal mondo animale, di cui è bene ricordare, facciamo parte.

Secondo l’Università di San Diego…
1. Mettete 20 scimmie in una stanza.
2. Attaccate una banana al soffitto e disponete una scala affinché le scimmie possano accedere alla banana.
3. Assicuratevi che non ci sia altro modo di raggiungere la banana se non tramite la scala.
4. Installate un meccanismo che spruzzi acqua gelida nella stanza appena un esemplare prova a salire sulla scala.
5. Le scimmie impareranno velocemente che nessuno deve provare a salire sulla scala.
6. Rimuovete il sistema per spruzzare acqua fredda in modo che salire sulla scala non abbia alcuna conseguenza.
7. Quindi rimpiazzate una delle venti scimmie con una nuova. Appena questo nuovo esemplare proverà a salire la scala verrà assalita dalle altre diciannove scimmie che le impediranno con violenza la scalata.
8. Rimpiazzate un’altra scimmia con un esemplare nuovo. Anche questo verrà fermato brutalmente, e la scimmia più determinata a somministrare la punizione sarà proprio l’esemplare nuovo introdotto poco prima.
9. Continuate il processo fino a che tutti i vecchi esemplari non saranno sostituiti.
10. Alla fine nessuna proverà a salire sulla scala e anche se qualcuna decidesse di provarci, verrebbe immediatamente massacrata dagli altri esemplari. La cosa peggiore è che nessuna delle scimmie ha la minima idea del perché!


Insomma, se diamo per buono questo pattern di apprendimento, cosa dovremmo dedurre sulla cultura delle nostre organizzazioni? Quante cose “si fanno così” o “non si fanno così” e a ben pensarci non abbiamo nessuna idea del perché? E se togliamo il principale mezzo di comunicazione usato dalle scimmie nell’esperimento, ovvero il massacrarsi fisicamente di botte a vicenda, quale altro strumento usano gli esseri umani per trasmettere la cultura?
Forse per avere la risposta a questa domanda dovremmo fare un piccolo passaggio evolutivo e dalle scimmie passare agli uomini delle caverne. Alla prossima.

domenica 21 febbraio 2010

Aziendal graffiti parte prima



Sono fermo in piedi. Davanti a me un bancone stile reception. Dietro una signorina che scrive al computer. Sto così da almeno un paio di minuti. Io aspetto, lei scrive. Io la guardo, lei guarda lo schermo. Io mi guardo intorno spazientito. E dietro la signorina mi soffermo su un cartello che recita “la soddisfazione e la cura del cliente per noi sono prioritari”. Torno a guardare la signorina. Immobile. Io e lei. Ancora qualche minuto e finalmente rotea gli occhi di un paio di gradi e incontra il mio sguardo. Tra di noi circa 50 cm. “Aveva bisogno?”. Avrei voluto dirle “no, assolutamente. Amo passare le mie giornate in piedi immobile ad ascoltare il tic tac di una tastiera di computer. Mi rilassa”. Dico “si, ho telefonato e prenotato, dovrei lasciare l’auto per il tagliando”. Lei tornando con lo sguardo al pc dice “deve parlare con il collega” e mi indica un ufficio vuoto. La storia potrebbe andare avanti ancora a lungo (come di fatto la mia permanenza in quei luoghi e la maratona del mio tagliando). La riflessione nasce piuttosto in fretta. Le organizzazioni, piccole o grandi amano darsi codici o linee guida di comportamento, etiche o valoriali. E va bene. Per lo più le medesime sono rappresentate sotto forma di cartelloni, quadri, poster appesi ovunque. Graffiti moderni che decorano tutte le aziende. Una full immersion di buon senso e belle parole. Eppure spesso la sperimentazione diretta mostra comportamenti ben lontani, se non all’antitesi, di quanto proclamato sui muri. Com’è?
Facciamo un esperimento. Provate ad immaginare di voler scrivere la carta dei valori o delle regole di comportamento di casa vostra. Diciamo almeno due o tre punti. Via.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
Bene. A qualcuno è venuto in mente di scrivere “in questa casa non si ammazza?”. Immagino di no. ”Non uccidere” è, normalmente, qualcosa di più di una regola o un principio o un valore. Probabilmente rientra nella categoria che potremo chiamare delle “assunzioni di base”. Assunzioni talmente vere e radicate dentro di noi che non ci viene neanche in mente di renderle esplicite. La vera cultura di una persona, o di un’ organizzazione, è vissuta quotidianamente in modo inconsapevole ed è addirittura difficile “estrarla” e formalizzarla. Insomma, se è vero e profondo non ci viene neanche in mente di scriverlo da qualche parte. Allora cosa sono tutte quelle scritte sui muri? Se seguiamo la logica del ragionamento potremo dire “regole, valori e principi “che vorremmo ci fossero e che non ci sono. La grande illusione è che semplicemente avendoli sotto gli occhi in qualche modo serva ad influenzare il comportamento. Il che è assolutamente falso, infatti quello che abbiamo sempre sotto gli occhi diventa rapidamente invisibile. Se non ci credete provate a dire (senza guardare) cosa c’è sul retro della banconota da 10 €.
Insomma, personalmente diffido dalla esplicitazione, sia personale che aziendale, di valori o norme di comportamento. La signorina al pc e la sua abilità quasi soprannaturale di ignorarmi ne è un esempio. Empiricamente mi sento di dire che “se viene dichiarato esplicitamente” allora non è “vissuto veramente”. E mi vengono in mente alcuni casi di organizzazioni lestissime a licenziare i cui muri dichiaravano “le persone sono il nostro capitale più importante”. Altre in cui ogni persona ammetteva che bisognava innanzitutto “pararsi il fondoschiena” per andare avanti i cui muri inneggiavano all’onestà, al rispetto e alla trasparenza. Restano alcune domande. Come si forma davvero una cultura aziendale? E se non è quella “appesa ai muri”, come possiamo “estrarla” Una possibile risposta alla prima domanda viene dal comportamento delle scimmie. Per la seconda forse dobbiamo tornare ai tempi in cui ancora la scrittura non esisteva. Ma questa è un’altra storia.

lunedì 15 febbraio 2010

“Nel magico mondo del feedback” parte prima



La verità è tanto più difficile da sentire quanto più a lungo la si è taciuta. (Anne Frank)

Nelle aziende ogni tanto se ne parla “I nostri manager devono essere più assertivi”, “ci vuole più chiarezza”, “dobbiamo sviluppare la cultura del feedback”. Tra l’altro questa necessità a volte genera situazioni paradossali. Ho assistito a questo dialogo tra un manager e un formatore chiamato ad aiutarlo a risolvere un problema con una sua persona. “E’ troppo molle con i suoi collaboratori, non osa mai dire niente, gli altri se ne approfittano. Dovete insegnargli a dare feedback”, aveva detto perentorio il manager. Il coach, facendo il suo lavoro, aveva chiesto: “come ha reagito quando gli avete fatto osservare questa sua lacuna?”. E la risposta era stata: “no no, non gli abbiamo detto niente, è molto sensibile e potrebbe offendersi”. Ecco, questi sono gli italiani alla presa con lo spinoso tema del feedback. Diciamocelo, noi questa capacità di andare diritti al punto e dire esattamente quello che pensiamo, soprattutto se in qualche modo “negativo” proprio non la abbiamo nel DNA. Non è così dappertutto. In certi paesi europei dire ad un altro (amico, collega, collaboratore, addirittura capo) quello che si pensa in modo schietto e diretto è normale. In certi ambiti quasi sacro. Giusto per citare un caso ricordo un feedback datomi da un collega olandese durante il mio periodo di formazione all’interno di una multinazionale di cultura fortemente nordeuropea. Sapevo che avrei dovuto ascoltare, e sapevo che mi avrebbe fatto male. Il feedback è arrivato e sì, ha fatto male. Avevo deciso a priori che avrei accettato la situazione facendo buon viso a cattivo gioco e nonostante sentissi la faccia avvampare dal caldo e le gambe tremare, nonostante fosche visioni di vendetta mi passassero davanti, ero anche riuscito a controllarmi e a dire, la voce strozzata, “ok”. Non era finita però. Il collega continuava a fissarmi con occhi di ghiaccio. Silenzio. Dopo alcuni interminabili secondi ha proseguito chiedendo “Scusa, credi che il mio feedback sia stato importante?”. Annuii. “E allora un ringraziamento sarebbe la cosa più opportuna, no? Quanto è importante dare un riscontro a chi ti aiuta segnalandoti le tue aree di miglioramento?”. Ecco, mi avevano dato feedback e subito dopo un altro feedback su come avevo accolto il primo feedback. Insomma ci sono evidentemente culture e predisposizioni diverse relativamente alla comunicazione. Noi italiani siamo più orientati verso l’iperbole, il meta messaggio sottile, la comunicazione induttiva. Ma in qualche modo intuiamo a livello personale o aziendale che essere più assertivi in generale potrebbe aiutarci. Come mai? Perché forse sappiamo che il non detto in qualche modo “fermenta” dentro di noi creando tensioni personali e interpersonali e accumulo di tossine che prima o poi esplodono in momenti di rabbia. Oppure sfociano in comportamenti altamente scorretti. Mi hanno raccontato questa storia: in un’ azienda era stata assunta una nuova ragazza che aveva un problema di ipertraspirazione… insomma, “puzzava un po’”. Probabilmente un bel “po’” visto che nessuno voleva stare vicino a lei, neanche il tempo di un caffè e soprattutto a pranzo. Isolata completamente e senza sapere il perché dopo alcuni mesi ha fatto causa all’azienda per mobbing. E poi se ne è andata. Magari bastava farle notare il problema. Al di là di questo caso estremo una comunicazione chiara, sincera e diretta è fondamentale per un buon lavoro di squadra e indispensabile se gestiamo collaboratori. Tra l’altro comunicazione chiara, diretta e sincera non riguarda solo il “feedback” inteso come area di miglioramento ma anche il “feedback positivo”. Sarà sorprendente ma abbiamo gli stessi problemi comunicazionali. Come fare allora a innescare in modo utile e non traumatico questa modalità di comunicazione? Ne parleremo prossimamente.
PS: feedback su questo post?

domenica 7 febbraio 2010

Per mettere tutto in prospettiva




Regolamento dell’ufficio di un’ azienda tessile piemontese del 1884

"Gli impiegati dell’ufficio devono scopare i pavimenti ogni mattina, spolverare i mobili, gli scaffali e le vetrine.

Ogni giorno devono riempire le lampade a petrolio , pulirne i cappelli e regolarne gli stoppini e una volta la settimana devono lavare le finestre.

Ciascun impiegato dovrà portare un secchio d’acqua e uno di carbone per le necessità della giornata.

Tenere le penne con cura. Ciascuno può fare la punta ai pennini secondo il proprio gusto.

Questo ufficio si apre alle 7 del mattino e si chiude alle 8 della sera, eccettuata la domenica nel qual giorno resterà chiuso. Ci si aspetta che ciascun impiegato passi la domenica dedicandosi alla chiesa e contribuendo liberamente alla causa di Dio.

Gli impiegati uomini avranno una sera libera alla settimana a scopo di svago e per due sere libere andranno regolarmente in chiesa.

Dopo che un impiegato ha lavorato per 13 ore in ufficio dovrà passare il rimanente tempo leggendo la Bibbia o altri buoni libri.

Ciascun impiegato dovrà mettere da parte una somma considerevole della sua paga per gli anni della vecchiaia in modo che egli non diventi un peso per la società.

Ogni impiegato che fumi sigari spagnoli, faccia uso di liquori in qualsiasi forma, frequenti bigliardi o sale pubbliche o vada a radersi dal barbiere, ci darà una buona ragione per sospettare del suo valore, delle sue intenzioni, della sua integrità e onestà.

L’impiegato che avrà svolto il suo lavoro fedelmente e senza errori per cinque anni avrà un aumento di 5 (cinque) centesimi al giorno, ammesso che i profitti dell’azienda lo permettano."

Brrrrr

lunedì 1 febbraio 2010

Esplorando scenari alternativi



Perché gli uomini ad un certo punto della storia del pianeta anno cominciato ad uscire di casa, tutti alla stessa ora, e fare più o meno strada per raggiungere un posto di lavoro dove avrebbero passato la maggior parte della loro giornata? Molto semplice: perché si era passati da un sistema agricolo-artigianale-commerciale all’era industriale. E dati i tempi era fondamentale che gli operai lavorassero tutti assieme, dipendendo ciascuno dal lavoro dell’altro. Passando dalla fabbrica agli uffici il principio non cambiava: niente internet o posta elettronica ovviamente e molto lavoro “manuale” seppure sulla carta piuttosto che al tornio.
Veniamo ad oggi. Nonostante le rivoluzioni tecnologiche e il sostanziale miglioramento delle condizioni di lavoro e dei diritti umani, l’organizzazione delle aziende è rimasta la stessa dell’Inghilterra del 1800. Ancora oggi tutti i lavoratori escono di casa circa alla stessa ora e raggiungono un luogo fisico per espletare il loro lavoro anche se non si tratta di un impiego legato alla produzione fisica di “cose”. Che ci sia un disallineamento tra la velocità dell’innovazione tecnologica (veloce) e dei comportamenti delle persone e delle organizzazioni (lenti) è innegabile. Con alcune conseguenze negative e strani effetti collaterali. Il più interessante è secondo me il presenzialismo che in due parole si può riassumere con: siamo valutati da quanto siamo percepiti presenti ed impegnati piuttosto che sul risultato finale del nostro lavoro. Il che in certi casi genera situazioni fantozziane: passiamo ore in coda per raggiungere l’ufficio, partecipiamo a noiosissime e lunghissime riunioni dove facciamo inutili domande solo per sottolineare la nostra presenza e ci aggiriamo nei corridoi sempre tenendo un foglio in mano così da dare l’idea a chi ci incontra di stare facendo qualcosa di utile.

Come potrebbe funzionare quindi un organizzazione alternativa? Qualcuno ci ha pensato. Un caso di proposta su cui è interessante fantasticare è contraddistinta dalla sigla ROWE e se la sono inventata in USA. ROWE sta per Results Only Work Environment e un paio di aziende l’hanno già messa in pratica, apparentemente con eccellenti risultati di produttività e fidelizzazione del personale. Il senso è chiaro: organizzati il lavoro come vuoi e quando vuoi, fai quello che ti pare. L’importante è che tu raggiunga i tuoi obiettivi nei tempi stabiliti.
Sulla carta il concetto non fa una piega. Pensando all’applicabilità, almeno nel contesto attuale, sembra più complicato. Innanzitutto perché ci sono lavori il cui output è difficilmente quantificabile, anche se mi viene da pensare che questo è uno dei problemi delle organizzazioni attuali. Il secondo ostacolo è legato al fatto che, affinché il metodo funzioni, ci devono essere per tutti obiettivi chiari. Sembrerebbe scontato ma alla domanda “quali sono i tuoi obiettivi?” molte persone rispondono in modo vago e infastidito. Il terzo è più che altro una supposizione, ovvero che il creativissimo italiano medio potrebbe trovare facili escamotage per non lavorare proprio e prendere lo stipendio. A me non viene in mente nulla ma sono sicuro che se un sistema ci fosse, noi come popolo lo troveremmo. Un'altra obiezione che mi aspetterei sul sistema ROWE è che le persone hanno bisogno di vedersi, frequentarsi e comunicare, e implementando il metodo tutti starebbero comodamente a casa propria. Vero. Ma innanzitutto il metodo non implica il lavorare da casa, piuttosto secondo una propria organizzazione svincolata da schemi imposti. Parlando poi del “comunicare” tra colleghi pare che il 90% del tempo le persone al lavoro preferiscano la email anche se sono vicini di scrivania e se hanno un minuto libero amano passarlo su qualche social network con persone che non vedono mai dal vivo. Insomma, forse non siamo pronti a implementare cambiamenti tanto dirompenti, ma non è bello pensare ad una rinnovata libertà degli impiegati di tutto il mondo, a una migliore gestione personale, a città meno intasate di pendolari, a traffico meno congestionato? Forse in un lontanissimo futuro quando guarderemo al modo in cui lavoravamo “oggi” ci verrà da sorridere con la tenerezza che riserviamo a situazioni di disarmante ingenuità.

lunedì 25 gennaio 2010

Evviva il pessimismo (parte seconda)



Se tutti la pensano allo stesso modo significa che c’è qualcuno che non pensa.
Generale Patton


Nel primo post relativo al pessimismo accennavo all’utilità di avere un pessimista di buon livello nella nostra “squadra”. Certo, potendo scegliere, chi vorrebbe nel suo team un brontolone, sarcastico, noioso e menagramo personaggio che ammazza costantemente l’entusiasmo con le sue preoccupazioni? Eppure se ben gestito e se il resto del team è costituito da un numero ragionevole di persone decentemente positive e propositive, il ruolo del pessimista può diventare prezioso. Innanzitutto però dobbiamo capire se il nostro pessimista lo è “di sostanza”, quindi utile, o “di forma”, altamente tossico. Il pessimista di forma usa la negatività come arma di perversa leadership, in sostanza cerca di emergere non brillando di luce propria ma cercando di offuscare la luce degli latri denigrando progetti, idee ed iniziative. Il suo pessimismo è più orientato quindi al “chi” che al “cosa”. Non è però difficile disinnescare l’oscuro boicottatore. Basta invertire il comportamento che l’istinto ci suggerirebbe di tenere. Facciamo un esempio: stiamo per guidare una riunione con il nostro team per il lancio di un progetto e ci aspettiamo proposte operative e prese di responsabilità da parte dei partecipanti. Temiamo dal pessimista “di forma” grandi scuotimenti di testa, ipotesi di fallimento e precise indicazioni sul cosa non funzionerà e l’attacco costante alle nostre proposte. E allora istintivamente tenderemo a farlo parlare il meno possibile. Ma non sarà possibile e alla fine dedicheremo la maggior parte della riunione a cercare di smontare le sue obiezioni fino a che la conversazione e la riunione in sintesi non sarà monopolizzata dal nostro negativo interlocutore. Pessimista 1 manager 0. Per invertire il processo dovremo invece agire all’opposto. Invece di cercare di evitare l’entrata in gioco del pessimista dovremo favorirla. Invece di cercare di smontarlo dovremo valorizzare il suo contributo negativo. Ad esempio aprendo la riunione con la richiesta formale di fare un elenco di problemi che vede nel progetto. E quindi ascoltarlo attentamente fino a che non avrà finito. Ringraziando per il contributo potremo quindi passare ad ascoltare le proposte favorevoli preparate dagli altri. Normalmente i pessimisti di forma quando vedono che il loro contributo negativo non funziona “contro” ma viene incorporato e gestito come parte del processo sotto la leadership del manager perdono la loro carica e si ridimensionano automaticamente. Detto questo passiamo al contributo del pessimista “di sostanza”. La prima utilità di questo personaggio è legata al fatto che probabilmente è l’unico che ha il coraggio di dar voce a qualche forma di dissenso. Capita spesso nei gruppi che le persone tendano a tener per se le opinioni che sembrano contrarie al trend del gruppo stesso generando quello che in gergo si chiama “falso consenso”. Il tema è affascinante e ne riparleremo. Invece il contributo del nostro pessimista può catalizzare i dubbi degli altri, renderli espliciti e permettere di lavorarci sopra. Il secondo punto è legato per definizione al comportamento dei superpositivi. L’entusiasmo per un idea od un progetto tende infatti a non far vedere possibili oggettivi problemi. Al contrario il pessimismo “di sostanza” non è altro che l’estremizzazione di una attitudine profondamente analitica e orientata a valutare lo scenario complessivo. Dare retta al pessimista ci aiuta ad individuare e risolvere in anticipo potenziali ostacoli per il successo del problema. Se il nostro team è quindi costituito da persone molto propositive e positive, sempre in linea con i progetti e gli obiettivi che come manager impostiamo, forse è il momento di adottare un pessimista. Non può che farci bene.

lunedì 18 gennaio 2010

Decisioni prevedibilmente irrazionali



Come si chiama la vostra rivista preferita? Ok, adesso immaginate di visitare il sito di suddetta rivista e trovare le seguenti tre offerte relativamente ad un abbonamento:
1) Abbonamento annuale online, che include l’accesso a tutti gli articoli pubblicati dalla data di fondazione della rivista stessa: prezzo 39 €
2) Abbonamento annuale alla rivista cartacea prezzo 99 €
3) Abbonamento annuale alla rivista cartacea e online, che include l’accesso a tutti gli articoli pubblicati dalla data di fondazione della rivista stessa: prezzo 99 €
Quale scegliereste?
.
.
.
.
.
Se per caso aveste scelto la terza opzione sappiate che avete effettuato proprio la scelta che chi ha scritto l’annuncio desiderava faceste. Come mai? E’ tutto ben spiegato nel libro “Prevedibilmente irrazionale” scritto da Dan Ariely, che è stato professore di Economia Comportamentale al MIT e attualmente professore alla Duke University. Nel libro Ariely esplora in modo divertente il mondo della nostra supposta “razionalità”. La tesi di fondo è che non siamo affatto razionali, anzi, siamo decisamente irrazionali. L’elemento divertente e anche shoccante è che siamo irrazionali in modo prevedibile. Almeno per chi conosce la materia. Veniamo all’esempio riportato sopra. Il principio di fondo è che non siamo in grado di prendere decisioni senza un contesto di riferimento. In sostanza guardiamo alle cose che ci circondano in relazione alle altre. Come se non bastasse quando mettiamo in relazione tendiamo a paragonare le cose l’una con l’altra quando sono facili da paragonare, molto simili insomma, mentre tendiamo a non farlo con cose molto distanti tra loro. Ecco che l’abbonamento alla sola rivista cartacea è stato inserito come “esca” affinché venisse automatico il confronto con l’abbonamento misto (rivista e online) e conseguente scelta dell’ultima opzione. Che era proprio l’obiettivo di chi ha inserito l’annuncio. Si tratta insomma una sorta di principio di relatività applicato alle decisioni. Questo e molti altri principi sono alla base del libro. Che fa molto riflettere. Non solo su come siamo facilmente manipolabili ma anche a proposito di innovazione. Se siamo così schiavi di strutture di pensiero rigide i cambiamenti sostanziali non potranno che essere lenti perché saranno sempre in relazione al noto. E se ci fosse qualche meravigliosa opzione a portata di mano e semplicemente non riuscissimo a vederla accecati dall’obiettivo di fare giusto, e solo, un po’ meglio di prima?

Evviva il pessimismo (parte prima)


Ristrutturazioni, calo delle vendite, interruzioni di linee di business, licenziamenti ma anche relazioni che non funzionano, problemi di salute, mancanza di senso e direzione. Sono argomenti di attualità e a tutti può capitare di vivere momenti di profonda preoccupazione professionale o personale: “potrebbe succedere anche a me”.
E a tutti capita invece di incontrare qualcuno che, venuto a conoscenza del nostro stato meditabondo e mal mostoso, si propone come salvatore dicendoci “ ma dai, pensa positivo!”. So da fonti certe che spesso la reazione istintiva di fronte a questa perla di saggezza sarebbe quella di afferrare il nostro portatore di positività per la coloratissima cravattona che probabilmente indossa e scaraventarlo giù dalla tromba delle scale. 

Non che il pensare positivo sia un male, anzi. Ma se le emozioni negative sono profonde, spesso il pensiero positivo non attacca perché è un’applicazione artificiale che impegna la nostra mente cosciente, mentre il nostro subconscio, rappresentato dallo stomaco che brontola e frigge, continua nella sua attività di “preoccupazione” drenando energie preziose. E allora non solo non riusciamo davvero a vedere le famose “opportunità” nei momenti di crisi, ma ci perdiamo anche il bello dell’essere pessimisti e negativi. Perché un bello c’è, tanto che la presenza di almeno un pessimista in un team può essere assolutamente benefica. Ne parleremo. 

Concentriamoci adesso però sulle nostre ansie, quelle che ci attaccano al mattino appena svegli e magari sulle quali siamo concentrati guidando verso casa o andando al lavoro. Quante di queste “paure” nascono dall’esperienza diretta? Di norma molto poche. Normalmente le nostre inquietudini nascono più dall’incertezza che dall’esperienza. L’ignoto insomma spaventa più del noto. Cosa fare allora? Il problema se lo sono posto in molte epoche e molte culture diverse. Incominciando da una cultura popolare che arriva addirittura dal futuro. Un grande maestro recitava:

Devi dare un nome alla tua paura prima di poterla sconfiggere.
Maestro YODA (da Guerre Stellari)

Il messaggio è chiaro. Finché non hai definito con chiarezza l’origine delle tue paure non puoi fare niente per risolvere la situazione. Viaggiando a ritroso troviamo lo stesso concetto nei filosofi stoici che esortavano a sconfiggere innanzitutto l’ignoranza relativa ai propri timori con l’invito a immaginare con chiarezza e addirittura a praticare gli scenari peggiori. Un particolare esercizio di preparazione al peggio suggerito da Seneca consisteva nel fare una bella lista delle proprie paure (e così potremo cominciare a dare loro un nome e soddisfare l’invito del maestro Yoda). Quindi definire per ogni paura le azioni necessarie affinché non si verifichi. E infine dedicarsi ad una terza colonna in cui definiamo un piano d’azione per ripristinare lo status quo nel caso in cui il peggio sia avvenuto. 

I vantaggi sono molteplici: innanzitutto una sensazione di benessere legata all’aver consegnato le nostre angosce alla carta, quindi la possibilità di fare riflessioni profonde sulla direzione della nostra vita. Il secondo e più radicale passaggio proposto dagli stoici riguarda la possibilità di passare dall’immaginazione del peggio al viverlo concretamente. Sicuramente difficile e con un po’ di fantasia possibile. Ho conosciuto una persona che per affrontare la propria paura delle malattie e del dolore fisico si è dedicato a fare del volontariato in ambulanza, ed ha funzionato. Il principio è molto semplice … ogni volta che scegliamo la sicurezza rinforziamo le nostre paure. Vivendole abbattiamo il muro dell’ignoto e ci mettiamo in condizione di cambiare profondamente il modo in cui percepiamo noi stessi e il mondo. Insomma, se il pensare positivo con noi non funziona o magari ci ha semplicemente scocciato, pratichiamo il pessimismo, ma facciamolo con metodo. Si possono fare scoperte molto interessanti. 

mercoledì 6 gennaio 2010

Nuovo rinascimento

La storia ci insegna che non è il più forte che emerge vittorioso, e neppure il più intelligente, ma solo chi si dimostra in grado di adattarsi, chi si muove con strategia e agilità, libero da condizionamenti, sempre pronto a modificare i suoi piani per adeguarsi immediatamente alla nuova situazione; in sintesi chi è capace di ridisegnare nuovi obiettivi e nuovi percorsi.
Le difficoltà, per questa categoria di uomini, non sono solo ostacoli ma opportunità di crescita, d'apprendimento. Ciò che siamo oggi è il risultato di un processo di adattamento, è la risposta a condizioni di squilibrio psicofisico che ci hanno obbligato al movimento, alla ricerca, all’azione, dunque al miglioramento.
Il rinnovamento del proprio abito mentale diviene dunque una necessità per adeguarsi alle mutevoli condizioni del mercato e, in sintesi, anche del mondo. Quando i vecchi modelli di riferimento sono inadatti e, tuttavia, il nuovo è ancora solo un’idea incerta e molto vaga, qual è il nuovo punto di riferimento? E’ l’uomo, che torna a essere al centro dell'universo, pronto per una nuova nascita.

Primo post

Nasce Otherwise, un sogno in azione.