domenica 1 dicembre 2013

Lego Serious Play Method


Si può scoprire di più su una persona in un'ora di gioco, che in un anno di conversazione. Platone
Immaginate un gruppo di manager. Sono  concentrati ma nessuno è seduto. Sono tutti in piedi e si sporgono leggermente in avanti sul tavolo. Discutono animatamente di business. Parlano di strategie, ipotizzano piani d’azione, esplorano scenari diversi. Spesso chi parla indica con un dito qualcosa sul tavolo.

E sul tavolo c’è una complessa costruzione fatta con i mattoncini Lego.

Si tratta della metodologia di facilitazione Lego Serious Play, già diffusa in Nord Europa e negli USA, e sperimentata con successo in molte organizzazioni, di settori diversi.

I manager hanno costruito le singole parti del modello sul tavolo, ciascuna rappresentante la sua visione del problema. Poi hanno creato assieme un sistema. E magari hanno identificato delle “forze” interne o esterne che possono avere un impatto sul sistema stesso. E ad ogni fase hanno commentato, discusso, scambiato.
Le mani hanno giocato, le menti hanno lavorato intensamente, tutti hanno attivamente partecipato.

La cosa interessante da osservare è che, mentre le persone “costruiscono” la versione tridimensionale di quello che hanno in mente…e quindi in sintesi giocano con i Lego…hanno un espressione incredibilmente concentrata. E’ vero che si tratta di introdurre quello che è originariamente un gioco amato da tutti al lavoro, ma è anche vero che “giocare” in questo modo è una faccenda assolutamente seria. Costruendo con le mani prima di parlare attingiamo più rapidamente al nostro subconscio bypassando un po’ il solito rugginoso pensiero cosciente, che è quello che ci fa dire le stesse cose nello stesso modo e che propone sempre le stesse idee. Il modello tridimensionale diventa poi un ancora che tutti comprendono e a cui tutti riescono a riferirsi senza sforzo. Le immagini, specie se in 3D sono potenti e le conclusioni di un workshop di questo tipo sono interessanti e concrete.

Alcune organizzazioni in Italia lo hanno già provato ma ancora non è molto diffuso. Forse al lavoro ci si prende ancora troppo sul serio e le ortodossie aziendali faticano a prendere in considerazione queste nuove metodologie. Eppure basta provare una volta per capire la bellezza e la potenza del metodo. Del resto diceva Nietzsche: “Maturità dell'uomo: significa aver ritrovato la serietà che da fanciulli si metteva nei giuochi.”

Se foste interessati ad un approfondimento cliccate qui

Paolo Mazzaglia

lunedì 4 novembre 2013

Asili, genitori e motivazione intrinseca


Come motivare i genitori a passare a prendere i propri figli in tempo dopo il lavoro negli asili in cui venivano lasciati durante il giorno (costringendo il personale ad aspettarli prima di poter tornare a casa)? E’ stato fatto un interessante esperimento. Il centro in questione ha deciso di dare una multa, diciamo di 10 €, ogni volta che i genitori erano più di 5 minuti in ritardo. Risultato? E’ aumentato il numero di genitori che arrivava in ritardo e sono aumentati anche i minuti di ritardo stesso. Come è possibile? 

Per capirlo bisogna introdurre il concetto di motivazione intrinseca ed estrinseca e dare un’ occhiata al subconscio dei genitori in questione. Innanzitutto perché prima dell’introduzione della multa molti genitori arrivavano in tempo o almeno ci provavano per una serie di motivi: pressione sociale, desiderio di non creare problemi al personale del centro, senso di responsabilità per i propri figli: tutti elementi detti di motivazione intrinseca, che viene da dentro. Con la multa all’ improvviso tutto si trasforma in uno scambio economico, che vale 10 €. Se le ragioni per arrivare in ritardo vengono percepite come importanti tanto da valere la pena spendere quella piccola cifra, le persone semplicemente la pagano senza più preoccuparsi del resto. La motivazione estrinseca (la multa) sostituisce la motivazione intrinseca (il senso di responsabilità) riducendolo ad una transazione di denaro. Se trasportiamo il discorso dalla punizione (la multa) al premio non cambia molto. 

Ad esempio si è sperimentato che pagare i donatori di sangue non ne fa aumentare il numero. Anche qui il vero “motore” del atto è di solito legato al senso civico e alla compassione per il prossimo. Il premio in denaro spazza via questi elementi di motivazione intrinseca rendendo il donare il sangue qualcosa che ha il valore di una somma in denaro e che fa leva sulla motivazione estrinseca. Altri esperimenti fatti con adulti e bambini hanno confermato questo dato controintuitivo: premiare o punire non sono sempre le strategie migliori per motivare le persone. Questo è secondo me un messaggio importante che dovrebbero capire tutti quei manager (e ne ho incontrati molti che la pensavano così) che lamentano la possibilità di “punire” da una parte o elargire “bonus” in denaro dall’altra per motivare le loro persone. La motivazione è qualcosa di assolutamente più delicato dell’ antico binomio bastone e carota (ne abbiamo parlato qui) e uno dei  ruoli del manager è quello di creare le condizioni affinché la motivazione intrinseca si sviluppi e si mantenga. Compito non facile e mal digerito perché significa sviluppare competenze e dedicare tempo ed energia.

Paolo Mazzaglia

domenica 29 settembre 2013

Il cambiamento aggiusta il passato. La trasformazione crea il futuro.


Cambiare in un bruco migliore o trasformarsi in farfalla? Questa domanda spiega ed introduce istantaneamente due diverse declinazioni del tema “cambiamento”.
Cambiare significa rendere le cose migliori, più veloci, più economiche…insomma “più” o “meno” qualcosa. In questo ambito il passato è il punto di riferimento e le nostre azioni sono indirizzate a modificare quello che è già successo. Il successo del processo è misurato dalle efficienze e dalle economie che si sono realizzate alle fine dei nostri sforzi. Quando scegliamo di cambiare il futuro è una versione migliorata del passato.
La trasformazione parte dall’assunto che le nostre azioni di oggi creeranno il nostro futuro domani. E questo futuro può essere descritto in modo completamente libero, privo di riferimenti al passato. In un processo di trasformazione si disegna il futuro e si cercano poi modi per realizzarlo. Quando scegliamo di trasformarci il futuro è qualcosa di completamente nuovo.
Cosa implica questa differenza?
Quando un team è al lavoro è importante chiarire in quale dei due ambiti stiamo operando per evitare confusioni e per darsi un metodo. Se ci stiamo “trasformando” è la “visione” che guida…e bisogna dedicare il tempo necessario a crearla, chiarirla e condividerla. Poi cercare le strade per raggiungerla. In un processo di cambiamento come descritto sopra si lavora più per parametri, identificando la situazione attuale e lo stato desiderato. E definendo quindi azioni puntuali per il miglioramento. Due metodi abbastanza diversi, non migliori o peggiori ma alternativi. Evitare di fare confusione può essere importante per l’efficienza del processo.

Paolo Mazzaglia

domenica 1 settembre 2013

Emozioni negative e comfort zone

Usciamo dalla zona di comfort. Possiamo crescere solo se siamo disposti a sentirci a disagio ed in difficoltà provando qualcosa di nuovo. Brian Tracy
Le emozioni negative non sono mai state viste di buon occhio, ed in un certo modo è evidente il perché. Al contrario la gioia, la felicità e la soddisfazione sono al primo posto tra gli obiettivi della maggior parte di noi.
Eppure le tanto neglette e più che mai nascoste, soffocate, ignorate emozioni negative hanno una loro importantissima utilità. Come il dolore, si quello fisico. Che non è altro che un campanello d’allarme che segnala qualcosa che non va. E soprattutto ci dice in modo chiaro ed inequivocabile “fai qualcosa”.
Di fatto le emozioni negative diventano una cosa seria solo se evitiamo di fare qualcosa per porvi fine. E’ l’incapacità o la non volontà di agire il vero problema, non l’emozione negativa in se. Che invece dovrebbe metterci immediatamente in moto…


Prima però dobbiamo riconoscere ed accettare il sentimento ed evitare di nasconderlo come la polvere sotto al tappeto. Quindi andare ad investigare le cause del problema e finalmente agire e fare qualcosa per mettere fine allo stimolo negativo. Semplice a dirsi ma difficile a farsi. Perché spesso le azioni correttive implicano uscire dalla nostra zona di comfort, prendere dei rischi, decidere nuovamente. E si sa che lo status quo appare confortevole proprio perché non bisogna prendere nuove decisioni ed è tutto già regolato. Ed ecco che ci si trova intrappolati in un loop negativo che alla fine può incancrenirsi e diventare permanente parte di noi. A meno che il dolore non diventi insopportabile, e allora saremo costretti ad agire, ma in panico, in modo disordinato e nevrotico a tutto svantaggio della qualità delle nostre azioni.

Conviene invece prendersi cura delle nostre emozioni negative subito considerandole dei veri e propri campanelli di allarme che segnalano che è “tempo di cambiare qualcosa”. 

Paolo Mazzaglia

domenica 9 giugno 2013

La rivoluzione della “Gamification”



Una famosa casa che produce scarpe sportive ha introdotto una interessante novità nel mercato. Alcune delle scarpe da corsa che produce hanno infatti all’interno un accellerometro che registra ogni singolo passo fatto e raccoglie tutta una serie di dati. Questo dispositivo si collega ad uno smartphone ed al PC ed attorno a questi dati sono costruite tutta una serie di applicazioni che registrano ad esempio qual è stata la corsa più veloce o la distanza più lunga. E’ possibile inoltre  comparare i propri risultati con quelli conseguiti in precedenza, competere con gli amici o ricevere incoraggiamenti da questi. Inoltre si possono stabilire degli obiettivi da raggiungere e al raggiungimento di questi si ricevono coppe o medaglie virtuali. Il che sa molto di “videogame”. 

Attenzione però…non si tratta di trastullarsi al PC. Si tratta sempre e comunque di correre veramente. Infatti perché un produttore di scarpe dovrebbe creare un servizio del genere?  Il suo obiettivo è ovviamente che la gente usi sempre di più i suoi prodotti e quindi l’obiettivo è fare correre davvero la gente, non certo farla smanettare di fronte ad un PC. Il fatto è che questa serie di “servizi”  rendono l’esperienza del correre più ricca ed in qualche modo più appagante. E quindi la gente corre di più anche grazie all’elemento “giocoso” di cui è arricchita l’esperienza. In sostanza elementi tipici dei “giochi” sono utilizzati per servire uno scopo che è al di fuori del gioco stesso. Esiste ad esempio un’altra applicazione per smartphone utile per la corsa che simula un inseguimento da parte di zombies famelici. Per sfuggire loro bisogna appunto correre veramente e ci sono tutta una serie di elementi che rendono la cosa avventurosa e divertente.

Di che cosa stiamo parlando? Di un nuovo fenomeno o forse di una nuova disciplina chiamata “gamification” che si potrebbe definire come “l’uso di elementi provenienti dai giochi e tecniche di solito usate per il design dei giochi applicati in contesti non di gioco”. Cosa significa? Innanzitutto una “ingegnerizzazione” dei processi coinvolti orientata ad aumentare il divertimento, e quindi elementi tipici dei giochi come un sistema di punti, qualcosa che registra i progressi, delle “quest” da affrontare, una scala di “livelli”, risorse da accumulare, personaggi virtuali e magari un sistema “social”. Questi elementi appunto possono essere applicati a contesti che non hanno niente a che vedere con il gioco come l’istruzione, il business, lo sviluppo personale, il sociale. A proposito il Wall Street Journal nel 2011 scriveva “Sforzandosi di rendere i compiti quotidiani più accattivanti un crescente numero di azienda…sta introducendo elementi presi dai videogames sul posto di lavoro”. Sempre nel 2011 Fortune scriveva “Improvvisamente la gamification è la novità di punta e molte delle più prestigiose aziende del mondo ci si stanno dedicando”.


Insomma si è realizzato che il “giocare” è potente, intrigante, coinvolgente. E che è possibile, nel modo giusto, portare questo acceleratore di interesse anche in contesti diversi dal semplice gioco per aumentare le performance aziendali, velocizzare i processi, motivare le persone, fidelizzare i clienti, promuovere comportamenti desiderati. E’ senza dubbio un trend interessante e mi viene da dire estremamente positivo perché mette al centro l’uomo, con le sue pulsioni, le sue passioni e le sue inclinazioni. Ne riparleremo.

Paolo Mazzaglia

martedì 7 maggio 2013

Uno strano angolo da cui guardare il concetto di cambiamento


Il cambiamento è la costante delle nostre vite:

  • Il nostro pancreas rimpiazza la maggior parte delle sue cellule ogni 24 ore
  • Le cellule della membrana dello stomaco vengono riprodotte ogni 3 giorni
  • I nostri globuli bianchi si rinnovano in 10 giorni
  • Il 98% delle proteine del nostro cervello vengono rimpiazzate in meno di un mese
  • La nostra pelle rimpiazza le sue cellule ad un ritmo di 100.000 cellule al minuto
E nonostante tutto questo noi soffriamo e resistiamo al cambiamento visto come una minaccia alla nostra serenità ed anche felicità.  Possiamo spingerci a dire che la mente umana ha grossi limiti riguardo all’accettare i cambiamenti, soprattutto quando sono “strutturali” e riguardano l’apprendimento di idee, nozioni o strategie nuove. 

Guardando i dati sopra possiamo concludere che siamo paradossalmente molto più abili ad affrontare il cambiamento da un punto di vista fisico che da quello mentale. 

Paolo Mazzaglia

martedì 2 aprile 2013

La paura del “social”

Oggi molte organizzazioni vedono ancora i social media come una minaccia per la produttività, un veicolo per la fuga di informazioni riservate, un indebolimento dell’autorità del management ed un pericolo per la “compliance”. Almeno questo è quello che emerge da un interessante assessment disponibile online (qui) legato alla promozione del libro “the social organization”. 

Un atteggiamento timoroso è ancora quindi la norma, e questo porta normalmente al più semplice dei comportamenti suggerito da questo sentimento: vietare e punire. Sicuramente questa soluzione riduce se non elimina del tutto il rischio di comportamenti indesiderati. Ma da un altro punto di vista chiude completamente la porta ai veri e potenziali benefici che si potrebbero ottenere da un sano e studiato uso dei social media nell’organizzazione. Un termine che credo faccia paura sia proprio la parola “social”, il che fa pensare forse a gruppi di amici che chattano e si divertono tra di loro invece di lavorare. 

Proviamo a sostituire la parola social con “digital” dunque. Cosa può significare portare e sviluppare quindi i “digital media” all’interno dell’organizzazione? Innanzitutto aprirsi alle soluzioni digital non significa automaticamente e semplicemente permettere alle proprie persone di connettersi a facebook e you tube. Se non si vuole sviluppare qualcosa di specifico (una soluzione comunque praticata) esistono già disponibili sul mercato soluzioni apposta per creare dei network privati aziendali (ad esempio Yammer, o Chatter di Salesforce). 

Perché usarli quindi? Con quali vantaggi? La collaborazione ed il crowdsourcing sono già realtà evidenti per il mondo social pubblico. Perché non sfruttarli anche all’interno del posto di lavoro? Le aziende più avanti sul tema realizzano sempre più che la più ricca fonte di idee, intuizioni, insights, dati e informazioni è costituita proprio dalle persone dell’organizzazione stessa. E queste informazioni  possono venire a galla grazie ai digital media a tutto vantaggio di:


  • processi decisionali
  • coinvolgimento e motivazione delle persone
  • collaborazione tra le persone
  • maggiori efficienze nel flusso del lavoro
  • condivisione delle conoscenze
  • percezione dell’ umore dell’organizzazione
I vantaggi sono quindi molti, i costi di implementazione di una strategia social interna decisamente bassi. Si tratta solo di capire che quello che viene percepito come un pericolo come sempre ed un po’ retoricamente rappresenta anche una vera opportunità.

Paolo Mazzaglia

domenica 17 febbraio 2013

Elefanti e credenze limitanti



I guardiani di elefanti in India hanno un modo molto semplice per evitare che i loro bestioni scappino via: li legano con una cordicella ad un piolo di legno. Non è difficile rendersi conto che qualsiasi elefante cresciuto potrebbe trascinare via corda e piolo senza nessuno sforzo. Però non lo fanno. Perché da piccoli venivano legati allo stesso modo ed allora la corda ed il piolo erano sufficienti a trattenere “fisicamente” il cucciolo. Quello che l’elefantino imparava in quel momento (non si può scappare dalla corda) lo avrebbe portato con se anche da adulto. E l’elefante adulto non è quindi trattenuto dalla corda, ma dal suo sistema di credenze.

Tutti noi abbiamo un passato fatto di famiglie, esperienze, formazione, stimoli, persone diverse. Questo insieme di stimoli crea le nostre “credenze” e le credenze possono essere viste come il nostro, invisibile, processore interno. La lente attraverso la quale vediamo il mondo. Il problema è che naturalmente non siamo portati a mettere in discussione questa lente. Il risultato potrebbe essere che non “sperimentiamo” il mondo in modo da massimizzare il nostro benessere, la nostra felicità ed armonia. Ricerche recenti sulla percezione hanno dimostrato come, quando siamo concentrati molto su qualcosa, tendiamo a non vedere “fisicamente” quello che ci sta attorno (vedi anche il post precedente). Se la nostra lente (e quindi il nostro sistema di credenze) è sintonizzato sulle difficoltà, le iniquità e le storture del mondo finiremo quindi per accorgerci solo di quello che non funziona. Il che rafforzerà ulteriormente le nostre credenze che diventano a questo punto “limitanti” e che influenzeranno non solo la nostra percezione ma come diretta conseguenza il nostro modo di comportarci. Se ad esempio abbiamo una credenza che dice che gli errori e il fallimento sono il male assoluto, eviteremo molte esperienze che potrebbero farci crescere ed apprendere, proprio perché per costruire nuove abilità è inevitabile, quasi auspicabile, sbagliare e fallire.

In sintesi non è necessariamente la realtà a modellarci ma è la lente attraverso cui la nostra  mente vede il mondo che modella la nostra realtà. E se possiamo cambiare quella lente, non solo possiamo controllare la nostra felicità ma possiamo cambiare anche i risultati che abbiamo nelle varie attività in cui ci misuriamo.
Come fare però ad influire su quel misterioso processore interno? E’ possibile lavorare e modificare il nostro sistema di credenze? Per fortuna si.  Riprenderemo il discorso più avanti.

martedì 22 gennaio 2013

“Frequency illusion” e la nascita dei pregiudizi



Se stiamo pensando di comprare una nuova auto ed abbiamo in mente un modello specifico, improvvisamente vediamo proprio quel modello dappertutto per le strade. Se stiamo per avere un bambino cominciamo a vederne ovunque e se abbiamo appena finito una relazione pare che ogni canzone non faccia che parlare d’amore. Magia? Assolutamente no, si tratta infatti di un fenomeno chiamato “frequency illusion”. La verità è infatti che siamo sommersi di informazioni di ogni tipo quotidianamente ma noi notiamo, anzi “vediamo” solo quelle che riguardano qualcosa che abbiamo consciamente in cima ai nostri pensieri. Fino a qui sembra un fenomeno curioso e per nulla pericoloso.
In realtà questo fenomeno è alla base dei nostri pregiudizi. Se per esempio ( per altro è una situazione molto frequente ) abbiamo preso una fregatura da qualcuno che ci ha imbrogliati o manipolati cominceremo grazie al fenomeno precedente a sentire da amici, a vedere in tv, a leggere sui giornali decine di casi in cui altre persone sono state imbrogliate e manipolate.  L’effetto? La nascita (se già non c’era) e soprattutto il consolidamento di una forte opinione: non ci si può fidare del prossimo. Se questa convinzione diventa importante non faremo che vedere il mondo attraverso questa lente confermando sempre più la nostra opinione. E perdendo di vista con costanza tutti i dati e le situazioni che invece contrastano con l’opinione stessa.

In sintesi le nostre opinioni non sono il risultato di anni di analisi razionale ed obiettiva. Invece le nostre opinioni sono il risultato di anni in cui abbiamo costantemente prestato attenzione alle informazioni che confermavano quello in cui già credevamo ignorando selettivamente e costantemente tutte le informazioni che mettevano in discussione le nostre nozioni preconcette. A me sembra una constatazione molto importante su cui dovremmo tutti riflettere a lungo.

venerdì 4 gennaio 2013

Un buon proposito per il 2013: liberarsi dai “molestatori emotivi”



Una volta ho conosciuto una persona completamente sconvolta perché la sua azienda avrebbe fisicamente traslocato. Non in un’altra città ma a pochi KM dalla vecchia sede. In una zona tra l’altro servita dalla metropolitana (mentre la vecchia sede non lo era). La persona era imbufalita e mi confidava che avrebbe fatto di tutto per cambiare lavoro…quei pochi km di distanza gli rovinavano la vita. “Perché non vieni in metropolitana allora?”. Non lo avessi mai detto. La metropolitana puzza, è piena di extracomunitari e di brutta gente…non se ne parla. E più parlavamo più la persona si infuriava e protestava: un vero fiume in piena di negatività. Un esempio di resistenza al cambiamento sicuramente, ma forse qualcosa di più…una sorta di autocompiacimento nella lamentela.

Perché dobbiamo ammetterlo: lamentarsi, protestare e criticare è bello. Secondo certi psicologi gratifica il nostro ego e ci fa prendere le distanze dalla responsabilità. E va bene. Ogni tanto ci vuole ed è umano, umanissimo. C’è però chi ne è diventato completamente dipendente ed esagera, come la persona descritta in precedenza. E dalla mattina alla sera non fa che rovesciarci addosso tonnellate di recriminazioni, indignazioni, scocciature e proteste per questa o quella cosa (o persona ) che proprio non vanno bene. Queste persone sono certamente noiose. Ma c’è di più. Alcuni neuroscienziati hanno fatto ricerche ed hanno scoperto “che rimanere esposti alle continue lamentele di parenti, amici, colleghi e chi più ne ha più ne metta, ci rende più stupidi. È un discorso di neuroni e di ippocampo: se siamo impegnati ad ascoltare fiumi di parole e piagnistei, siano essi provenienti da persone in carne ed ossa o dalla tv, il nostro cervello comincia a perdere colpi e noi non siamo più in grado di risolvere i problemi di cui ci stiamo occupando.”

Un buon proposito allora potrebbe davvero essere quello di liberarci da questa scocciatura e a riguardo si trovano la tecniche più stravaganti come immaginarsi avvolti da una bolla in modo da isolarci energeticamente dal molestatore emotivo. Stranamente leggendo in giro pochi suggeriscono di confrontare direttamente il lamentatore seriale con un feedback bello chiaro e diretto. Come sempre l’idea non è quella di “punire” il nostro amico/collega negativo ma di aiutarlo. Innanzitutto a prendere consapevolezza di quale sia l’impatto del suo comportamento sugli altri, e quindi magari portarlo a riflettere sul modo che ha di affrontare la vita e le cose. Se subiamo passivamente senza il coraggio di reagire non ci prendiamo carico del nostro benessere psicofisico e non diventiamo forse anche noi complici di quell’allontanamento dalla responsabilità di cui è vittima il nostro “molestatore”?

E allora via, proviamo a fare pulizia di emozioni negative attorno a noi. Magari riusciremo a vivere un po’ più sereni, risolvendo meglio i problemi e magari intercettando qualche opportunità in più.