domenica 25 novembre 2012

Invertire l’equazione della felicità



Qual è il tipico modo in cui motiviamo i nostri comportamenti soprattutto come genitori o manager? Normalmente l’equazione che abbiamo dentro (e che trasmettiamo fuori) è la seguente: se lavoriamo più duramente, avremo un maggior successo. Se avremo maggiore successo, saremo più felici.  Secondo Shawn Achor (in un divertente speech per TED) questo modello è fondamentalmente retrogrado e sbagliato.

Innanzitutto, ogni volta che la nostra mente registra un successo viene cambiato il limite che definisce che cos'è un successo. Se abbiamo preso un buon voto, dobbiamo prendere un voto migliore, se otteniamo un buon lavoro vogliamo poi averne uno migliore (e lo stipendio non è mai alto abbastanza) , inoltre chi fa vendite sa che raggiunto un obiettivo di vendita il prossimo sarà più alto, sempre più alto. In sostanza dice   Achor che se poniamo la felicità oltre il successo non la troveremo mai. Ciò accade perché pensiamo che dobbiamo avere successo, e che solo dopo averlo raggiunto saremo felici. Il nostro modo di pensare conclude è quello di spingere la felicità oltre l'orizzonte cognitivo.

La vera bella rivoluzione secondo me invece il concetto  che i nostri cervelli lavorano al contrario. Esiste secondo Achor (e secondo studi scientifici) un “vantaggio competitivo della felicità”. In sostanza se il cervello si trova in uno stato positivo, funziona significativamente meglio di quando si trova in uno stato negativo, stressato o indifferente. Intelligenza, creatività ed il livello di energia aumentano. Studi dicono che il cervello in uno stato positivo è il 31% più produttivo di quando si trova in uno stato negativo, stressato o indifferente. Si diventa il 37% migliori nelle vendite. I dottori sono il 19% più veloci ed accurati nel giungere a diagnosi corrette quando sono in uno stato positivo, piuttosto che negativo, stressato o indifferente. Il che vuol dire che possiamo invertire la formula. 

Se possiamo scoprire come diventare positivi oggi, allora le nostre menti avranno un successo ancora maggiore perché saremo in grado di lavorare più duramente, meglio ed in modo più intelligente. Insomma lavorare sulla felicità delle persone potrebbe essere un passaggio fondamentale. Non solo perché le persone saranno “banalmente” più felici ma anche perché questa felicità avrà un impatto positivo sul business. A me sembra molto bello oltre che utile.

Come fare però ad aiutare le persone a diventare più positive e felici senza intervenire sul “successo”? E’ un tema affascinante. Ne riparleremo.

Paolo Mazzaglia

domenica 4 novembre 2012

Cambiare facilmente idea: un bene od un male?



“Le persone finiscono per aver ragione sono persone che cambiano idea molto spesso”. Questa è una interessante riflessione di Jeff Bezos (fondatore e CEO di Amazon).

Da un certo punto di vista può risultare sorprendente perché siamo abituati a considerare come “positiva” l’attitudine ad avere opinioni ferme e decise, ed in generale non cambiare idea facilmente è visto come un segno di stabilità e congruenza. Cosa intende allora Bezos? 

In sostanza afferma che le persone più intelligenti sono impegnate in un processo di costante revisione della loro comprensione di un problema, e che spesso lo ripensano e riconsiderano anche se potrebbe essere archiviato come “risolto”. In sostanza sono persone aperte a nuovi punti di vista, ricettivi nell’accogliere nuove informazioni, nuove idee, contraddizioni e soprattutto hanno la capacità di mettere in discussione il loro stesso modo di pensare. 

Questo ultimo punto è probabilmente il più forte ed importante. Perché siamo tutti soggetti a creare rapidamente dei modelli mentali basati su un gran numero di assunzioni. E le assunzioni ci semplificano la vita e i processi decisionali e ci consentendoci di vivere in un mondo più semplice e stabile. Eppure molte assunzioni, che potremmo anche assimilare ai pregiudizi, limitano grossolanamente la nostra percezione del mondo portandoci tra l’altro a giudicare troppo in fretta.  

A proposito mi viene in mente una vecchia storiella morale:

Una ragazza stava aspettando il suo volo nella sala d’attesa dell’aeroporto. Siccome avrebbe dovuto aspettare per molto tempo decisa di comprare un libro da leggere; acquistò anche un pacchetto di biscotti.
Si sedette nella sala VIP per stare più tranquilla, accanto a lei c’era un signore che leggeva il giornale. Iniziò a leggere il suo libro e quando prese il primo biscotto anche il signore ne prese uno: lei si sentì stupita e irritata, ma continuò a leggere il suo libro, pensando “Ma tu guarda questo maleducato, se solo avessi un po’ più di coraggio gli direi il fatto suo!”.
Così, ogni volta che lei prendeva un biscotto, l’uomo accanto con perfetta disinvoltura ne prendeva uno anche lui. Continuarono così finché rimase un solo biscotto e la ragazza pensò: “Ah, adesso voglio proprio vedere cosa mi dice quando saranno finiti tutti!”. L’uomo prese l’ultimo biscotto e lo divise a metà.
“Questo è troppo” penso lei e sbuffò indignata, prese le sue cose e se ne andò.
Quando si sentì un po’ meglio e la rabbia fu sbollita, si sedette da un’altra parte e ripose il libro nella borsa… accorgendosi che il suo pacchetto di biscotti era ancora lì tutto intero! Sentì tanta vergogna e comprese che il pacchetto di biscotti uguale al suo era di quel signore che aveva diviso con lei i biscotti senza indignarsi, mentre lei si era sentita offesa e ferita nell’orgoglio…

Paolo Mazzaglia

domenica 21 ottobre 2012

6 modi sottili per risultare sgradevoli



Non sono in realtà grandi segreti. Tutti abbiamo prima o poi messo in atto qualcuna di queste tattiche magari inconsciamente. Vi è mai successo che qualcuno diventasse improvvisamente scontroso nei vostri confronti o dimostrasse un atteggiamento risentito senza che abbiate fatto nulla di apertamente ostile nei suoi confronti? Se si potreste aver adottato uno dei comportamenti seguenti senza rendervene conto. Ecco quindi una lista di cose da fare che ci possono rendere davvero antipatici senza sforzarsi di esserlo apertamente…

1) Rifiutare proposte ( di lavoro o anche private ) senza suggerire una alternativa. La cortesia con cui si declina l’offerta è quasi irrilevante. E’ la mancanza di una contro proposta a sottolineare come per voi la cosa o la persona contino poco.
2) Non rispondere a email o messaggi di invito o di richiesta di aiuto. Niente come il silenzio è una chiara manifestazione di incuria e disinteresse.
3) Mandare un breve messaggio scritto, normalmente un sms, a qualcuno che ci ha cercato per costruire o consolidare una relazione (poco importa se di amicizia, sentimentale o di business). L’sms va bene solo per prendere tempo prima di richiamare. Se si liquida invece il tentativo di contatto con un messaggio e basta il segnale è forte: non ho tempo (che equivale a voglia in questo caso) di dedicarti tempo.
4) Interrompere qualcuno che sta raccontando una storia con un altro argomento, qualsiasi, e non prendersi neanche il disturbo di dire “scusa ti ho interrotto…dicevi?”. Una tecnica violentissima.
5) Escludere palesemente qualcuno da un invito quando questi sarebbe nella posizione perfetta per essere invitato. Come ad esempio entrare in un ufficio di tre persone ed invitarne a pranzo solo due. Stesso dicasi per inviti tramite liste di distribuzione, mail o social network.
6) Cominciare ogni frase che diciamo con NO…

La lista potrebbe ancora essere lunga. Quali altri comportamenti sottili ci possono far risultare sgradevoli ed antipatici?

domenica 30 settembre 2012

Chi l’ha visto?

 
Ho aspettato e aspettato e quando non è arrivato alcun messaggio, ho capito che doveva essere il tuo. Ashleigh Brilliant


Era squillato il telefono. Dall’altra parte della cornetta un prospect al quale avevamo fatto da poco un’offerta. Aveva salutato gentilmente e poi…“vi ho chiamato semplicemente per ringraziarvi per la vostra proposta. Abbiamo apprezzato alcune idee ma è troppo lontana da come ci immaginavamo la cosa per cui abbiamo deciso di non accettarla e fare diversamente. Magari ci saranno altre occasioni…”…ancora pochi scambi di battute e ci eravamo salutati. Io ed il mio collega, prontamente accorso nel capire chi fosse dall’altra parte della cornetta, ci eravamo guardati attoniti, esterrefatti. Ma inaspettatamente non eravamo animati da sentimenti negativi. Eravamo invece pervasi da stupore innanzitutto…e quindi di gratitudine. Si, proprio di gratitudine. In oltre 10 anni di attività commerciale era la prima volta che un cliente ci diceva di NO.

Non che tutte le altre offerte fatte fossero fino ad allora andate in porto… magari! Il punto è che i clienti non ci avevano mai comunicato il rifiuto ne spiegato il perché. Semplicemente si erano limitati a sparire! Si proprio a sparire nel nulla senza un messaggio, una piccola mail…niente. E a niente erano valsi i nostri tentativi di ricontattarli con telefonate sul fisso o sul cellulare. A niente erano valsi i nostri messaggi in segreteria. A niente le pietose mail che elemosinavano un feedback. Improvvisamente dopo molte giornate di lavoro, dopo diversi meeting e grandi strette di mano al ricevimento dell’offerta i nostri potenziali clienti sparivano nel nulla. E il NO lo dovevamo dedurre da questa totale assenza di comunicazione.

Eppure il no, seppure appunto un rifiuto, è gradito e utile. Il no serve. Innanzitutto psicologicamente a metterci una pietra sopra. Poi ad aggiornare le previsioni di vendita con qualcosa di più specifico di una sfera di cristallo. Ma soprattutto serve il “NO perché…” ovvero la spiegazione del motivo per cui la cosa non è andata in porto. Come si può migliorare altrimenti? Come si può sperare di fare meglio?

In Italia il cliente è re, imperatore e tiranno. Ed è in evidente difficoltà nel dare risposte negative. Richiede troppo prezioso tempo? Od è troppo l’imbarazzo emotivo? Fatto sta che i poveri venditori il No lo devono dedurre dal silenzio, dal vuoto pneumatico. Come mai questa cattiva abitudine che sconfina nella cattiva educazione? Eppure tutti siamo alternativamente clienti e fornitori allo stesso tempo e dovremmo conoscere tutti il disagio che provoca una mancata risposta…Mi sono chiesto se fosse così ovunque. Mi hanno assicurato che in molti paesi europei è comune ricevere il no con tanto di spiegazioni. Educazioni diverse, assertività diverse. E del resto quel manager che ci aveva tanto stupito con il suo cortese NO viveva e lavorava in Italia…ma era tedesco.

martedì 18 settembre 2012

Crescere in fretta o crescere lentamente?



Se ci fossero due strade verso il successo, la prima rapidissima e la seconda lenta e magari faticosa, quale scegliereste? Credo sia normale scegliere la prima. Eppure potendo e dovendo scegliere forse la seconda porterebbe migliori garanzie e risultati. Perché? Perché veloce non significa durevole e se il nostro intento non è un mordi e fuggi ma piuttosto quello di perdurare nel successo ci sono alcuni benefit nella lentezza che è meglio non trascurare. Innanzitutto la lentezza ti prepara per le responsabilità…il successo può rovinarti la vita se arriva all’improvviso e non sei pronto a gestirlo sia dentro sia fuori (come ci insegnano tante tristi storie di star della canzone o del cinema “bruciate” dall’improvvisa popolarità). La lentezza aiuta invece ad adattarsi, ad imparare lungo la via, a mantenere l’equilibrio. Inoltre la lentezza aiuta a prepararsi per i momenti difficili che arriveranno. Questo perché aiuta a costruire basi ampie e solide su cui appoggiarsi, basi che non si faranno trascinare via al primo soffio di vento della crisi.

Se crescere lentamente può essere vantaggioso, quali sono allora le regole da seguire?
Gli esperti dicono che innanzitutto bisogna assicurarsi di “crescere” appunto, seppur lentamente. Il che significa fare in modo di aumentare sempre un pochino o l’elenco dei contatti o  la visibilità o la base dei clienti. Quindi rimane necessario avere un piano e lavorarci sopra definendo sicuramente gli obiettivi a breve termine ma anche quelli a lungo, per esempio sui tre anni. Infine è necessario rimanere fedeli ai propri valori, che definiscono la nostra identità, ci caratterizzano e ci danno coerenza e consistenza. Qualità che vengono percepite ed apprezzate anche dalle persone che vengono in contatto con noi.

Certo darsi come regola la lentezza non è esattamente in linea con l’epica tipica del business che ha sempre celebrato i grandi successi, le crescite impetuose, la creazione di imperi. Un epica che forse è ora di abbandonare perché ha fatto il suo tempo e sicuramente i suoi danni…e del resto non c’era anche un proverbio che diceva “chi va piano, va sano e va lontano”?

mercoledì 29 agosto 2012

Team engagement, da cosa dipende realmente?



Un interessante studio capitanato da Training magazine and The Ken Blanchard Companies ha investigato quali sono i fattori che più incidono sulla job retention ed in sintesi sulla soddisfazione e quindi sull’engagement dei lavoratori. Sono emerse tre famiglie di motivi:
Fattori legati al lavoro in se: autonomia, significato o “senso” del lavoro che si svolge, feedback, equilibrio nel workload e varietà nei compiti da eseguire.
Fattori legati all’organizzazione: collaborazione, aspettative sulla performance, possibilità di crescita, equità sia delle decisioni che nelle politiche retributive.
Fattori relazionali: qualità delle relazioni con i colleghi e con i propri responsabili.
Delle tre famiglie è stato chiesto quale fosse la più rilevante ed è emerso che innanzitutto sono proprio i fattori legati al lavoro ad essere i più impattanti, quindi quelli legati alla organizzazione ed infine i fattori relazionali.

Se è vero che lo studio tutto sommato non mette in luce nulla di veramente nuovo è anche vero che riafferma e sottolinea di che cosa si dovrebbero occupare realmente i manager quando si devono confrontare con una diminuzione dell’engagement del team. Troppo spesso ho visto manager che, preoccupati dal calo di motivazione delle loro persone, hanno pensato di risolvere la situazione portandoli tutti a passeggiare in montagna, a correre sui go-kart o a mangiare in un costoso ristorante. Non che siano attività sgradevoli ma alla fine lasciano la situazione di fondo immutata. Un buon manager dovrebbe invece essere formato a leggere le dinamiche motivazionali delle persone e dovrebbe porsi innanzitutto come garante e protettore di quegli attributi (senso, autonomia, varietà, equità etc) che contano veramente e che portano risultati di engagement a lungo termine.

giovedì 5 luglio 2012

Un altro buon motivo per ripensare radicalmente “l’ufficio”



Si sa, lo stress in ufficio è alto ed è in costante aumento secondo tutte le ultime statistiche. Certo contribuiscono l’aumento generale del carico di lavoro ed i timori spesso fondati di ridimensionamenti e tagli. Ma a parte questo…e se ci fosse qualcosa di sbagliato proprio nel modo in cui gli uffici sono costruiti, pensati ed utilizzati?

Del resto se si chiede a qualcuno dove e quando riesce davvero a lavorare bene e portare a termine i progetti le risposte sono del tipo: o molto presto al mattino e molto tardi la sera (quando ancora non c’è nessuno) oppure in viaggio, magari sul treno, o a casa durante il week end. Pochi rispondono “in ufficio”. Che è un costoso posto idealmente concepito appunto per “lavorare”. Come mai?


Innanzitutto…il lavoro è fatto di diverse attività: ora abbiamo bisogno di stare concentrati, ora abbiamo bisogno di passare molti minuti o addirittura ore al telefono, ora abbiamo bisogno di lavorare assieme agli altri. L’open space tipico è il posto peggiore per fare tutte e tre le cose…se dobbiamo rimanere concentrati il rumore di fondo, le chiacchere e le telefonate dei colleghi ci interrompono e disturbano…se dobbiamo lavorare con gli altri la struttura dei tavoli lo rende difficile e saremo noi a disturbare…e se dobbiamo usare il dannato telefono saremo protagonisti di una escalation di volume con i vicini ciascuno impegnato a difendersi dagli altri.
E anche se abbiamo il privilegio di avere un ufficio tutto per noi le cose non migliorano. Il nostro tempo è comunque fatto a pezzi ed usato dagli altri (soprattutto dai manager)...rispondere ad una domanda, scrivere una mail urgente, partecipare ad una conference call, fare una riunione, rispondere al telefono, gestire un intruso che ci vuole raccontare l’ultimo pettegolezzo. Anche nei nostri uffici privati non riusciamo a ritagliarci tempo di qualità.


E se invece di rimanere fedeli alla postazione di lavoro fissa colonizzata di cartacce foto ed oggetti personali diventassimo “nomadi” in azienda? Se insomma invece di uffici tutti uguali l’azienda fosse costruita con spazi diversi costruiti apposta per le diverse attività da svolgere? Se ci fosse ad esempio uno spazio chiuso ed isolato dove parlare al telefono, uno per lavorare in solitudine, un altro adatto per riunioni informali e momenti creativi, un altro per meeting più formali, angoli per andare a discutere con un collega e via dicendo? Potrebbe funzionare? Alcune delle aziende più avanzate ci stanno provando. Chi ha esperienza in merito? 

sabato 23 giugno 2012

Fretta e generosità



Nel 1977 gli psicologi sociali John Darley e Dan Batson hanno fatto un interessante esperimento presso gli studenti di teologia dell’università di Princeton. Al gruppo di controllo viene assegnato il compito di tenere un sermone sulla parabola del buon samaritano. Il sermone dovrà tenersi in un ala distante del campus. Una volta pronto il discorso ad un gruppo di studenti viene comunicato di affrettarsi poiché sono molto in ritardo per il sermone. Al resto viene comunicato che possono incamminarsi ma hanno un sacco di tempo e possono fare con calma. Mentre ogni studente attraversa da solo il campo si imbatte in un uomo rannicchiato a terra che tossisce e geme. Nella maggior parte dei casi gli studenti che credevano di avere molto tempo a disposizione si sono fermati. Il 90% degli studenti (con la parabola del buon samaritano in testa) che pensavano di essere di fretta non si sono fermati ad aiutare. Conclusione: basta una sottile manipolazione del tempo affinché una persona animata dalle migliori intenzioni anteponga i propri interessi al bene di una persona in chiara difficoltà.

Un altro psicologo sociale si è preso la briga di misurare la “velocità” o come lo chiama lui il “ritmo della vita” di intere città attraverso la misurazione della velocità della camminata, la precisione degli orologi e l’andamento delle transazioni commerciali. Bene…nelle città con “ritmo di vita” più alto è stato dimostrato che le persone sono meno propense ad aiutare gli altri (come aiutare un cieco ad attraversare, restituire un oggetto caduto etc…).
Insomma la nostra percezione del tempo ha un impatto sul modo in cui prendiamo le decisioni. E più ci sentiamo “di fretta” meno siamo predisposti ad aiutare gli altri. 

Mi viene da riflettere sull’impatto di questa tendenza sul lavoro di gruppo e la cooperazione. Quanto è utopistico pretendere teamwork e collaborazione ad un team sottoposto a rigide scadenze e ritmo lavorativo elevato? Quanto un manager dovrebbe riflettere sugli effetti psicologici del “tempo” sul modo in cui i collaboratori prendono le decisioni? Quanto potrebbe essere saggio ogni tanto dare ossigeno e togliere quella maledetta pressione che sembra governare la tarda modernità?

giovedì 24 maggio 2012

Un buon motivo per ripensare radicalmente “l’ufficio”



Il New York Times ha recentemente pubblicato una articolo intitolato “stare seduti uccide”. In sintesi uno studio fatto su oltre 17.000 Canadesi per 2 anni ha trovato che le persone che stanno più tempo sedute hanno un più alto rischio di decesso di quelle che si muovono di più. Tra l’altro il dato è indipendente dal fatto che le persone che stanno sedute facciano o meno attività fisica e sport dopo il lavoro.   
Muoversi durante il lavoro quindi potrebbe essere un vantaggio per la salute di tutti. Ma non solo. Altre ricerche hanno dimostrato che il muoversi aumenta la produttività (clicca qui)
E’ forse e finalmente arrivato il momento di ripensare profondamente il modo in cui i posti in cui lavoriamo e passiamo gran parte del tempo sono concepiti?

In pochi fino ad ora si sono posti il problema…ma chi lo ha fatto ha scoperto che i cambiamenti che si possono apportare all’ufficio sono spesso semplici e di costo irrisorio. Anche se probabilmente si tratta di un cambio di paradigma troppo difficile da essere accettato facilmente.
Ad esempio le scrivanie rialzate senza sedie pare facciano miracoli (ne abbiamo già parlato qui). Ma anche la sostituzione delle sedie in sala riunioni con delle grosse palle che costringono a mantenere il corpo in movimento per stare in equilibrio sembra funzionino molto bene (ed aiutano probabilmente anche la velocità della riunione stessa). Esistono poi tastiere ergonomiche, speciali cuscini da sistemare sotto le sedie, ed altri gadget utili a migliorare la salute di chi vive l’ufficio. C’è addirittura chi ha sistemato attrezzi ginnici come il tapis roulant o barre per i push up in mezzo all’ufficio tradizionale. Insomma curiosando in rete si trovano decine di idee interessanti, spesso un po’ bizzarre, sempre originali.

Chissà…magari tra 50 anni si guarderà indietro agli uffici di oggi e ci si chiederà “ma come facevano a lavorare in quel tipo di ambiente?”

mercoledì 2 maggio 2012

Come uccidere definitivamente quell’ultimo barlume di creatività



Diciamocelo, questa cosa di dover essere creativi è una seccatura. E’ impegnativo e da un sacco di ansia da prestazione. Se ancora c’è in noi un barlume di creatività ed immaginazione che scava per cercare il suo spazio forse varrebbe la pena ucciderlo del tutto e chi si è visto si è visto. Così finalmente potremo rilassarci, rimanere immobili in un mondo che cambia davvero troppo velocemente e ritenerci soddisfatti di quello che sappiamo senza l’angoscia di doverci adattare e dover trovare nuove soluzioni. Ecco quindi alcune semplici regole da adottare per far fuori ogni residuo barlume di immaginazione e fantasia….

  • Ogni volta che viene un idea ignorarla e soprattutto non scriverla da nessuna parte…sparirà in fretta
  • Non fare mai nulla di nuovo
  • Limitare le letture al quotidiano. Se possibile evitare anche quello
  • Quando si sente parlare di una cosa nuova alzare le spalle e bollarla immediatamente come l’ennesima cretinata. Mai andare a cercare ed approfondire di cosa si tratta
  • Celebrare il passato, niente sarà mai migliore di quello che è stato
  • Semplificare l’esistenza. Meno si fa meno si può essere contaminati da idee nuove
  • Giudicare tutto quello che non si conosce inutile, frivolo, passeggero e stupido
Ecco, basta seguire queste semplici regole, che per altro necessitano di fatica quasi nulla e finalmente ed inesorabilmente potremo sentirci completi, dotti e completamente attrezzati per vivere in un mondo che esiste solo nella nostra mente.

lunedì 16 aprile 2012

…un lavoro stupido e ripetitivo al giorno…



Se non sei nel momento, o stai guardando avanti verso l’incertezza, o indietro verso la paura e il rimpianto.
Jim Carrey (si, proprio l’attore comico)


Un lavoro stupido e ripetitivo al giorno non toglie il medico di torno ma può aiutarci ad avere qualche buona idea e a recuperare un po’ di equilibrio. Ovviamente a patto di approcciare la cosa  in un certo modo. Ma prima cerchiamo di definire cosa è un lavoro “stupido e ripetitivo”. Probabilmente non esistono criteri oggettivi ma sia una definizione strettamente individuale. Per qualcuno  ad esempio ripulire l’inbox delle email rappresenta un buon caso: si tratta di ordinare i mittenti per nome, creare la cartelletta corrispondente e trascinarci i messaggi dentro. Mettere in ordine  files e documenti (sia informatici che cartacei) è un altro esempio. Si tratta insomma di lavori che richiedono poca concentrazione e una semplice pratica manuale. E che per lo più sono noiosi.
Cosa potrebbe succedere se approcciamo a queste attività con lo spirito giusto? Molto semplicemente la nostra mente conscia si “scarica” e senza accorgerci accediamo al nostro subconscio (che, facendo una grossolana semplificazione, rappresenta il 90% del nostro potenziale). Tutti abbiamo provato qualche volta questo fenomeno: il problema risolto guidando verso casa, l’idea improvvisa mentre falciamo il prato, brillanti strategie di business intraviste  durante una camminata in montagna. Il problema di queste intuizioni è che si verificano  in situazioni in chi è difficile fermarsi per prendere un appunto, esplorare il concetto, condividerle. E dopo poco si perdono nel nulla.

Il doppio vantaggio di creare lo stesso stato mentale al lavoro è dato dalla possibilità di approfittare subito dell’intuizione e dal vantaggio di completare finalmente quel lavoro stupido e noioso che continuavamo a rimandare.

Come serve ( o non serve ) però per accedere al nostro potenziale intuitivo? Semplicemente dedicarci completamente al nostro compito. Essere presenti nel qui ed ora non vivendolo con ansia o come perdita di tempo, ma con presenza ed intenzione, lasciandoci andare senza sensi di colpa a quel lieve intontimento benefico che compare se riusciamo a smetterla di pensare ai nostri problemi e a concentrarci solo sull’osservazione di quello che stiamo facendo.

Il concetto ovviamente è tutt’altro originale essendo già stato preso in esame da varie forme di meditazione antica e dallo Zen ma sembra interessante (e divertente) l’idea che per recuperare energie ed avere buone idee forse dovremmo dedicarci proprio a quelle attività che istintivamente evitiamo e riteniamo nemiche di performance e creatività…

Insomma, se tutte le famose tecniche di gestione del tempo e di focalizzazione con noi non hanno dato risultati, forse potrebbe valer la pena fare altrimenti, e provare con 15 minuti di benefico intontimento al giorno. Potrebbe essere una rivoluzione!

lunedì 26 marzo 2012

Una nuova professione: il “risponditore” di email



L’ho visto succedere. Un collega ha alzato il telefono spazientito per chiamare un altro collega…perché non stava rispondendo alla sua email abbastanza velocemente. Questo semplice fatto è la punta dell’iceberg di un grande fraintendimento inconscio…ovvero l’email NON è uno strumento di comunicazione istantaneo. Solo che in tanti, troppi lo considerato tale…ed è uno dei motivi per cui ci spazientiamo se non ci rispondono in fretta e che sentiamo la pulsione di rispondere velocemente ed immediatamente ad ogni richiesta.

Eppure tutti i sacri testi sulla gestione del tempo e sulla produttività personale concordano sull’opportunità di non vivere incollati alla casella di posta, di tenerla addirittura chiusa di quando in quando, e di smaltire le varie email in momenti ben definiti della giornata dedicati. Proporlo suscita reazioni violentissime di rifiuto…le persone all’idea di tenere chiusa per mezz’ora la casella di posta o inorridiscono o fanno capire che esiste un entità superiore che si aspetta da loro proprio di rispondere istantaneamente pena le fiamme dell’inferno. C’è poi chi dice con innocenza “ma è il mio lavoro rispondere alle mail”. Mi chiedo che effetto farebbe questo titolo sotto il nome sul biglietto da visita…

Mario Rossi
Email responder

Eppure nonostante le resistenze il fatto resta…l’email non è uno strumento di comunicazione istantanea. Lo sono invece i programmi di istant messaging (usati con successo in tante grandi organizzazioni), la visita dal vivo e la cara vecchia telefonata. Che per altro siamo comunque costretti a fare quando il nostro interlocutore non risponde alla nostra mail velocemente come da storia all’inizio del post. Sarà ormai troppo tardi per imparare ad usare l’email in modo migliore?


domenica 18 marzo 2012

Sessi, lavoro e cordialità


Secondo i risultati di una ricerca condotta su 1200 persone (660 uomini e 540 donne) tra il 2001 e il 2009* le donne italiane sul posto di lavoro stanno diventando sempre più simili agli uomini: ovvero più fredde e calcolatrici.
Sempre secondo la ricerca per le donne è stato registrato un calo sia per quello che riguarda l’empatia che per la sensibilità e cordialità. Per gli uomini è salita la sensibilità ed è invece ulteriormente crollata la cordialità.

Se prendiamo per buoni i risultati della ricerca possiamo trarre due grossolane conclusioni:
1) Il posto del lavoro è diventato un ambiente a cordialità tendente allo zero
2) Gli uomini stanno diventando sensibili e scortesi (mentre una volta erano cortesi ed insensibili? Può darsi)
3) Le donne nella lecita battaglia per la parità stanno trascurando o perdendo di vista alcune delle loro qualità più belle.

Riguardo all’ultimo punto mi viene da pensare che parità non significa conformità e forse è proprio vero che le donne dirigenti,  non avendo un proprio modello di leadership “storico” hanno dovuto scimmiottare gli uomini. Assorbendo i molti difetti della categoria. In questa nuova  era  è forse ora che si trovino un nuovo modello di leadership costruito sulle loro qualità e che valorizzi le differenze naturali tra i sessi. 

E sui “maschi” al lavoro che dire? Come si stanno trasformando, cosa stanno perdendo e cosa stanno guadagnando?

*Cofimp, Società di alta formazione di Unindustria Bologna 



domenica 11 marzo 2012

Come rendere drasticamente più brevi le riunioni



Sono sempre tante le cose che vorremmo cambiare al lavoro. Una di queste e senz’altro la piaga delle riunioni…troppe e soprattutto troppo lunghe e dispersive. Come risolverlo? Certo si possono sensibilizzare le persone all’importanza di arrivare preparati (e in orario) e si può insegnare al leader a gestire la discussione con polso più fermo. Si può utilizzare un “meeting cost clock” per far sapere a tutti quanto costa la riunione in tempo reale (ne trovate uno qui). E comunque tutte queste misure tendono a funzionare per un po’ e poi le vecchie abitudini tornano a vincere. Infatti cambiare significa non solo abbandonare una vecchia abitudine ma instillarne una nuova e positiva. E per farlo sovente ci si sforza molto con scarsi risultati. Un messaggio importante passato dal bel libro “Switch” di Chip e Dan Heath è invece che spesso i cambiamenti sono più facili di quello che sembra e che sembra un problema di persone è spesso un problema di situazione. Un approccio innovativo ed altamente efficace per ridurre la durata e migliorare l'efficacia delle riunioni è ad esempio quella di farle in piedi in una stanza senza sedie.

Questa strategia è stata utilizzata con successo dal generale William Pagonis, che dirigeva le operazioni logistiche durante la guerra del golfo. La sua responsabilità era enorme e complessa…muovere 550.000 soldati, smaltire 32.000 tonnellate di posta, pompare 5 miliardi di litri di carburante e così via…Aveva bisogno di una grande efficienza ed efficacia nelle riunioni. Ed ecco che tra le 8.00 e le 8.30 ogni mattina riuniva il suo staff, rigorosamente in piedi, per scambiare informazioni e fare il punto sulla situazione. Secondo le sue stesse parole questo faceva si che chi aveva qualcosa da dire lo dicesse velocemente e poi passasse la parola ad un altro. E se qualcuno si dilungava più del dovuto erano le proteste degli stessi colleghi a riportarlo in carreggiata. Questo espediente oltre a risolvere nell’immediato il problema ha avuto anche il vantaggio di creare un’abitudine di sintesi ed efficacia tra le persone. E  anche questa come ogni buona abitudine installata non se ne sarebbe andata velocemente.

Se immagino una tipica riunione italiana in cui uno parla proiettando decine di noiose slides e gli altri mandano incessantemente mail stravaccati sulle comodissime poltrone da ufficio con il blackberry tenuto seminascosto sotto il tavolo l’idea non solo mi sembra valida, ma anche sadicamente necessaria.
Di fronte ad una situazione da cambiare vale la pena sempre quindi fermarsi un attimo e chiedersi se ci sono strade più semplici ed immediate oltre a quelle che stiamo già esplorando. A volte cambiando un dettaglio possiamo veicolare grandi cambiamenti.

Minimalismo, logorroici e poesia II


“la vita è come una scultura: bisogna togliere”.
Mauro Corona


Dicevamo nel post precedente che se tutti amiamo la capacità di essere sintetici negli altri non per forza siamo in grado di essere sintetici noi. Eppure la capacità di essere chiari ed efficaci in poco tempo (e con poche parole) è fondamentale oggi in cui le finestre di attenzione sono sempre più piccole. Diciamoci la verità: quanto tempo ci danno colleghi, capi o clienti per presentare le nostre idee? E soprattutto quanto di quel tempo è fatto di vera attenzione e quanto fatto di un automatico annuire mentre con i pensieri si è già all’impegno successivo o magari alla lista della spesa? Quindi è importante essere elegantemente sintetici.
Allora come fare? E perché per qualcuno sembra un’ impresa impossibile e disperata? Devo dire che manca letteratura a riguardo ( o almeno io non l’ho trovata per adesso ) ma abbondando le ipotesi e le interpretazioni. La più semplice è che innanzitutto abbiamo tutti un gran bisogno di essere ascoltati, e visto che l’ascolto non arriva spontaneo ce lo prendiamo. Non troppo distante da questa prima idea è quella per cui la “logorrea” sia dettata innanzitutto dall’ansia: quella di passare in secondo piano, di essere ignorati, di perdere il palcoscenico rubato da altri. E allora niente spazio per nessuno…il palco è mio finché parlo. Altre riflessioni possono venire dal modo in cui elaboriamo i pensieri. Di fatto poiché la nostra mente conscia può solo dirigere la sua attenzione ad un certo quantitativo di informazioni, in un dato momento abbiamo dei programmi interni che l'individuo utilizza (spesso a livello non consapevole) per decidere verso cosa ed in che modo dirigere la sua attenzione. E a volte questi programmi interni ci “obbligano” a dilungarci su aspetti non cruciali rispetto a quello di cui stiamo parlando. C’è chi ad esempio infarcisce i discorsi di riferimenti al tempo, chi parla ossessivamente di posti ed aggiunge riferimenti geografici a quello che dice. Chi parla di cose e chi preferisce fare costantemente riferimento alle persone. Niente di male in realtà se non che a volte questo porta ad inutili allungamenti del discorso. Facciamo un esempio:
Domanda: quale software possiamo usare per fare questo lavoro?
Risposta (di chi ama fare riferimento alle persone): guarda, una volta è venuto a trovarci in ufficio un amico del mio capo, Mario, quello di cui ti parlavo che si è sposato due volte e la seconda moglie Caterina è una cugina alla lontana del premier Indiano….comunque questo tipo, Luca, ci aveva raccontato di un suo collega, un tipo bizzarro pare ma un genio dell’informatica che lavora sempre da solo in una baita in Trentino, e ci aveva detto che lui era particolarmente affezionato a Dreamweaver per questo tipo di applicazioni.
Bene, interessante, soprattutto davanti ad una birra in una situazione di relax. Forse in un contesto lavorativo era sufficiente dire “mi hanno parlato bene di Dreamweaver”. Sicuramente meno ricco, sicuramente più efficace. Insomma capita che non sappiamo dare le giuste priorità alle giuste informazioni.
Sempre fantasticando sui motivi per cui non riusciamo ad essere sintetici non dobbiamo dimenticarci di uno fondamentale, che in realtà ci accomuna tutti. In sostanza ci dilunghiamo e sbrodoliamo perché stiamo riflettendo su un tema ad alta voce. E lo stiamo facendo in quel momento perché non l’abbiamo fatto prima. In sostanza non siamo preparati e come diceva qualcuno “mi ci vogliono due minuti per preparare un discorso di due ore, e due ore per preparare un discorso di due minuti”.
Quali soluzioni quindi per imparare ad essere più sintetici?
E sarà possibile sviluppare questa fondamentale qualità?
Ne discuteremo prossimamente.

martedì 21 febbraio 2012

Equazioni ed emozioni


Serve essere superuomini per essere oggi dei grandi imprenditori? Secondo Chip Conley* invece basta essere “super umani” ed aspirare a diventare Chief Emotional Officer, ovvero occuparsi seriamente delle emozioni come elemento fondamentale del successo. Ora che le emozioni siano importanti è cosa nota. Non altrettanto scontato invece il ragionamento quasi ingegneristico che si può portare avanti come fa lui nel sul libro “emotional equations”. Le emozioni qui vengano trattate come vere equazioni e pare che questo tipo di modellizzazione consenta di gestirle in modo migliore e più lucido. Il discorso sembra interessante soprattutto per quei leader che vogliono gestire importanti cambiamenti e che quindi devono occuparsi anche dell’aspetto emozionale (fondamentale) delle persone. Ecco alcuni esempi di equazioni che consentono di fare alcune semplici riflessioni:



disperazione=sofferenza-significato

Il senso è chiaro. Se vogliamo evitare che le persone si disperino è fondamentale aumentare il “significato” o il senso delle cose o del processo che stanno attraversando. Un grande significato può far assorbire una grande sofferenza.

Ansietà = incertezza x impotenza

E anche questa equazione sembra avere senso, soprattutto parlando di cambiamenti. Se vogliamo ridurre l’ansia o cerchiamo di abbattere l’incertezza (ad esempio con comunicazioni chiare) o cerchiamo di dare in mano alle persone alcune leve che non li facciano sentire completamente impotenti.
E per concludere un equazione parecchio filosofica che merita qualche minuto di riflessione…

Felicità=volere ciò che hai/avere quello che vuoi

Io ci ho messo un po’ a capirla ma ora mi è chiara e non posso che essere d’accordo.
Insomma portare le equazioni nelle emozioni può sembrare un po’ un ossimoro. Eppure credo che il tema sia interessante e vada approfondito a tutto vantaggio di chi è consapevole di quanto e come le emozioni siano fondamentali per il successo di un’ organizzazione. Ne riparleremo.

*Chip Conley è il fondatore di Joie de Vivre Hospitality (fondata quando aveva 26 anni) e che adesso ha 30 proprietà solo in California Nel 2010 ha vinto il primo premio in customer service assegnato da un importante istituzione statunitense ed è stato definito uno degli imprenditori più innovativi dal San Francisco Business time.

lunedì 13 febbraio 2012

Situazioni vs Motivazioni

Molte persone credono di pensare ma in realtà stanno solo riorganizzando i loro pregiudizi. William James.


Evaristo inciampa per colpa di un piccolo gradino nel pavimento. Gloria pensa che Evaristo sia goffo e maldestro.
Se però fosse stata Gloria ad inciampare avrebbe dato la colpa al gradino e probabilmente avrebbe imprecato verso i costruttori, i proprietari del posto o gli architetti.

Non che Gloria sia strana, anzi. Questo fenomeno è normale ed ha un nome in psicologia: errore fondamentale di attribuzione (o "errore di corrispondenza"). Questo rappresenta la tendenza sistematica ad attribuire la causa di un comportamento esclusivamente alla persona che lo mette in atto (attribuzione disposizionale), sottostimando l'influenza che l'ambiente o il contesto o la situazione possono avere nel determinare tale comportamento (attribuzione situazionale).
Questo fenomeno è spesso responsabile di giudizi sbagliati sulle persone. Se a dare questi giudizi sono poi manager responsabili di valutare la performance dei collaboratori e ancora, se a queste valutazioni seguono decisioni importanti, allora il fenomeno è ancora più delicato. E pericoloso.

Ad esempio un manager potrebbe esser convinto che un nuovo venditore sia poco motivato a parlare con i clienti al telefono perché non riesce mai a vederlo all’opera. Ad un osservatore attento non dovrebbe però sfuggire che il nuovo venditore è seduto vicino ad un vecchio collega che passa molte ore al giorno ad urlare al telefono con una voce da baritono e che il nuovo venditore non faccia che aspettare una pausa del collega per fare le sue telefonate.
In un mondo perfetto il giovane venditore dovrebbe farsi valere…ma sappiamo che il mondo è spesso più complesso di quanto si immagina a tavolino. Magari ha già chiesto al collega un paio di volte di parlare più piano e questi dopo un po’ è tornato alle sue vecchie abitudini. E per paura di creare un conflitto il nostro amico si sia rassegnato.

In conclusione…le persone di frequente traggono rapide conclusioni sul carattere, le motivazioni e le capacità degli altri. Chiunque, ma soprattutto i buoni manager, dovrebbero saper fermarsi e porsi le seguenti domande:
-è possibile che ci siano fattori situazionali che influenzino il comportamento e la performance della persona?
-quali potrebbero essere esempi di questi fattori?
-se mi immagino nei suoi panni quali potrebbero essere le difficoltà e le sfide che vivo?
Quante persone avete incontrato che hanno questa capacità di esaminare la situazione a 360° e riflettere prima di giudicare? 

lunedì 23 gennaio 2012

Riflessioni sulla leadership



Abbiate cura dei mezzi, e i fini si realizzeranno da soli. Mahatma Gandhi 
Oggi le aziende non hanno più bisogno di buoni manager. Servono degli ottimi leader. Lo scenario economico è cambiato e si è evoluto nel corso degli ultimi anni in modo radicale. La competitività  a livello globale, il Web 2.0, la chiamata alla trasparenza e all’informazione, la delocalizzazione, la necessità di trasformarsi da strutture burocratiche e ingegnerizzate a unità snelle e flessibili, sono solo gli elementi più evidenti della nuova realtà che le organizzazioni vivono ogni giorno. La creatività e l’innovazione insieme alla capacità di adattamento diventano così fattori cruciali per la sopravvivenza stessa di un’organizzazione. In questo turbolento scenario, non è più sufficiente essere capaci di decidere tra due opzioni, saper pianificare, coordinare e supervisionare. Il manager-leader deve saper creare coinvolgimento nel tracciare una rotta, generare fiducia nelle capacità delle persone, che saranno indispensabili ad arrivare all’obiettivo con successo. Il leader deve avere una visione chiara e la capacità di comunicarla, deve essere in grado di riconoscere e ricompensare. Il leader è un abilitatore e un ispiratore, capace di espandere le capacità degli individui e di coinvolgerli nel processo affinché si comportino, a loro volta, da leader nel loro lavoro.
Il bravo leader è un elemento strategico per l’azienda: ha infatti un impatto decisivo sui profitti, potendo arrivare anche a raddoppiarli grazie alle sue buone performance. Uno studio condotto da Jack Zenger e Joseph Folkman (2010), co-fondatori di una società statunitense tra le più quotate nello sviluppo della leadership, ha fatto valutare 20.000 leader in tutto il mondo dai suoi circa 200.000 stakeholder. Mettendo a confronto il 10% dei leader più bravi con il 10% di quelli meno funzionali, sono state rilevate sedici competenze distintive e da qui la correlazione statistica tra leadership e indicatori di business come il margine, il turnover, la soddisfazione del cliente, il coinvolgimento dei collaboratori. Le competenze distintive sono state clusterizzate in cinque aree: carattere (onestà e integrità), orientamento ai risultati, capacità personale, abilità interpersonali, catalizzatore di cambiamento. Una buona leadership ha un impatto sul benessere delle persone e questo sulle loro prestazioni. Diversi studi infatti hanno dimostrato la correlazione tra leadership efficace e benessere psicologico del follower. Il lavoro è un’occasione per costruire, trasformare o confermare la propria identità, è una forma d’espressione dei propri valori, un modo per esternare il proprio talento e apportare un contributo alla comunità. Al leader spetta l’onere o l’onore di aiutare il processo di attribuzione di senso rispetto a quello che gli individui fanno.
Come allenarsi ad essere dei buoni leader? Secondo alcuni studi, la chiave per la formazione alla leadership starebbe nel lavorare sui punti di forza e non sulle debolezze, un metodo che ribalta completamente l’approccio degli ultimi decenni. Questi studi hanno dimostrato che quei leader che sono stati guidati, a valle dei loro assessment e valutazioni a 360°, nel rafforzare i loro punti di forza per portarli a livelli di eccellenza, hanno ottenuto molti più risultati di coloro che si sono concentrati esclusivamente sulle aree di debolezza. E’ emerso che tutte le competenze di leadership sono strettamente collegate le une con le altre: in generale, pertanto, facendo allenare un leader sulle sue competenze più forti, anche le altre migliorano.

Alessandra Giardiello

lunedì 16 gennaio 2012

Minimalismo, logorroici e poesia 3


La semplicità  è  la sofisticazione suprema. Leonardo Da Vinci

Nei post precedenti abbiamo dibattuto in modo NON sintetico della bruttezza della logorrea e della bellezza della sintesi. Ora non resta che rispondere ad una domanda difficile: come fare ad essere più sintetici?
Considerando che non esiste una bacchetta magica e che nulla si può ottenere senza sforzo vediamo tre semplici consigli che ci possono aiutare…

·         Utilizzare la tecnica della piramide rovesciata
·         Ripulire grazie ad una magica domanda
·         Prepararsi, prepararsi e prepararsi.

Cominciamo dai primi due punti
Innanzitutto cosa è la tecnica della piramide rovesciata? E’ una metafora nata nel giornalismo per descrivere l’uso di mettere la più importante informazione all’inizio  di un testo. La necessità era nata pare tra i reporter di guerra in epoche in cui le comunicazioni non erano avanzate come adesso e gli articoli si dettavano al telefono e la linea poteva cadere in qualsiasi momento. Se quindi si cominciava con le informazioni di contorno e poi la linea cascava davvero si rischiava di lasciare la controparte con una serie di informazioni irrilevanti e nessuna notizia pubblicabile. Oggi molti giornali sono scritti così: in grassetto la notizia più importante e a seguire in ordine decrescente di importanza le informazioni di contorno. La conseguenza è che si può lasciare la lettura in qualsiasi momento e ancora avere chiaro di cosa si sta parlando ( questo stile viene chiamato "summary news lead" style, o "Bottom Line Up Front").
Per parlare della pulizia bisogna tornare invece ad un concetto assolutamente Zen. Ovvero liberare dal superfluo per lasciare l’essenziale. Atteggiamento non facile da imparare a meno di non impegnarsi in un cammino personale di meditazione e crescita spirituale. Può però aiutarci una metafora assolutamente ordinaria e che tutti conosciamo. I bagagli. Immaginiamo di aver preparato una soddisfacente valigia per un bel viaggio. E all’improvviso ci comunicano che per ragioni di sicurezza potremo imbarcare solo una valigia grande la metà. Cosa facciamo? Siamo costretti ovviamente a razionalizzare distinguendo il necessario dal piacevole ma NON indispensabile. Allo stesso modo dovremmo fare con le parole che scegliamo ed una buona domanda da farsi ce la insegnano gli anglosassoni: “so what?”. Tradotta suona un po’ come un provocatorio “ e quindi?”…ed è la domanda chiave per imparare a distinguere. Se alla domanda la risposta è “niente” forse quella frase, quel riferimento, si può tranquillamente cestinare.
Infine ma prima di tutto resta il concetto di preparazione. Decidere qual è l’informazione più importante, metterla per prima, ripulire dal superfluo…non sono attività che si improvvisano. Serve tempo, serve preparazione. La buona notizia è che il tempo investito lo potremo recuperare quando finalmente dovremo parlare o scrivere finalmente in modo più sintetico ed efficace dimostrando anche agli altri che “meno è meglio”.

domenica 8 gennaio 2012

Buoni propositi per “tirare su la testa”

Agende fitte di impegni, persone intente a rispondere a mail durante il week end, i viaggi in treno, in auto, in metropolitana. Una riunione dietro l’altra. Una telefonata dopo l’altra con un occhio a facebook ed uno a linkedin. Sono I nostri tempi, accettiamolo, inutile continuare a demonizzarli… E poi via, tutto questo daffare è anche l’adrenalina che dà la carica. E allora giù, testa bassa.

 Ok, bene.

 A testa bassa.

 Solo che, quando si tratta di avere la prossima brillante idea che faccia la differenza, tutto questo “tirare” non aiuta molto. E il mondo ha un disperato bisogno di buone idee. Buone con la B maiuscola. E per averle la testa dobbiamo anche alzarla, acquisire una visione dall’alto, arricchirci con nuovi stimoli e suggestioni, esplorare il campo delle possibilità. Ora, nella nostra agenda mettiamo un po’ di tutto. Ma pochi trattano anche le attività volte all’arricchimento personale, all’ossigenazione cerebrale, al pensare e fantasticare con il rispetto che riservano ad una riunione con il capo o con un cliente importante (Bill Gates era solito prendersi un intera settimana solo per pensare). Anche solo investire l’1% del nostro tempo in questa direzione non può che essere un enorme regalo. Innanzitutto per noi stessi, e magari anche per il nostro business. E allora proviamoci, dedichiamo almeno un paio d’ore al mese a fare qualcosa di nuovo, inconsueto, stimolante. Il mondo è pieno di suggestioni per la mente recettiva e non bisogna fare grandi cose: basta andare a vedere una mostra d’arte, uno spettacolo teatrale, leggere qualcosa di nuovo, perdersi in un museo o in un parco…guardare la gente, guardare la vita. Blocchiamo in agenda questo tempo e proteggiamolo. Scopriremo che non ci saranno conseguenze per la nostra produttività e soprattutto il seme della prossima idea eccezionale potrebbe passarci vicino quando abbiamo la testa alta e gli occhi ben aperti.