domenica 10 dicembre 2017

E se l’intelligenza emotiva fosse la chiave per salvare il nostro lavoro dal rischio “automazione”?



Come cambierà il lavoro nei prossimi anni? Qualche dato interessante e forse anche lievemente inquietante. Boston Consulting Group ha predetto che nel 2025 oltre un quarto dei lavori verrà rimpiazzato da un software o da un robot e la Oxford University  stima che il 35% dei lavori in UK saranno a rischio automazione. 

Di fatto Intelligenza artificiale, digitalizzazione, robotica non sono più un futuro da fantascienza ma un solido fenomeno del presente. Tra questi proprio l’intelligenza artificiale sta penetrando ogni settore, dai trasporti alle finanze, dall’ambito legale a quello educativo fino ad arrivare al customer service e alla medicina. Gli esempi sono ovunque e giusto per citare alcuni big player: Skype ha lanciato un sistema di traduzione istantaneo, Google sta investendo nella auto che si guida da sola e IBM Watson sta collaborando con centri specializzati per personalizzare i trattamenti del cancro.
E quindi? Cosa succederà di noi? Su cosa dobbiamo investire per avere ancora un futuro nel mondo del lavoro?

Secondo uno studio condotto da Goran Roos ci sarà nel futuro un aumento di richieste in due tipi di lavoro: quello poco o pochissimo qualificato, come i servizi di pulizia,  e quello estremamente qualificato, come avvocati, medici, ingegneri. Questi aumenti di richiesta non compenseranno una grande diminuzione però, quello dei lavori di fascia intermedia, ad esempio quelli di personale di back office ed in alcuni casi di front office. Come prepararsi a questa sfida per non “retrocedere” a lavori meno qualificati? Il primo step secondo me è quello di sviluppare le attitudini alla gestione del cambiamento ed una importante “learning agility”. Infatti per riqualificarsi si dovranno acquisire abilità e competenze negli ambiti ITC e tecnologico, di processo, di settore, specifici di business, finanziari e non meno importanti elementi soft come: skills comunicazionali, orientamento alla risoluzione dei problemi, capacità di design, creatività, pensiero prospettico, e in generale tutto ciò che riguarda l’intelligenza emotiva.

Se al momento le macchine possono sostituirci ad esempio per processare un documento o produrre una fattura ancora, per fortuna, non possono farlo su quelli che forse sono gli aspetti più prettamente umani del nostro lavoro e quindi, per pensare in modo prospettico appunto, bisogna cominciare ora ad investire su queste competenze per essere preparati per il futuro. Un effetto collaterale positivo è che lavorare ad esempio sull’intelligenza emotiva non solo è strategico per il nostro futuro lavorativo ma contribuisce ad una esistenza più consapevole, sana, orientata ai nostri valori profondi e quindi in sintesi più felice. Mi sembra anche questa una buon motivo per prenderla seriamente in considerazione per ritornare a lavorare non solo sul ruolo ma sull’uomo dietro al ruolo e approfittare dell’ avanzamento tecnologico per elevarci, riqualificarci e valorizzare il contributo unico che ciascuno in potenza può dare. 

Per fare un primo passo in questo senso ci sarà a Marzo un evento importantissimo organizzato da Six Seconds Italia. Non mancate.

sabato 14 ottobre 2017

Agile Learning e piccoli prestigiatori


Immaginate di essere un prestigiatore dilettante ed aver imparato un semplice trucco. Ora mostrate il trucco ad un adulto: se riuscite ad imbrogliarlo vi chiederà come avete fatto. Di fronte al vostro rifiuto se ne andrà scocciato. Provate ora a farlo vedere ad un bambino. Meravigliato anche lui vi chiederà spiegazioni ma, di fronte al vostro rifiuto, vi strapperà di mano il mazzo di carte e caparbio e testardo proverà a rifare il trucco (senza per altro aver capito nulla). Ora paradossalmente uno degli elementi dell’Agile Learing è proprio in questo diverso atteggiamento ed è un campo in cui il piccolo prestigiatore supera di gran lunga l’adulto in termini di atteggiamento e velocità. Ma facciamo un passo indietro.

Quando usiamo la parola agilità pensiamo al movimento: velocità, flessibilità, fluidità. Ed è esattamente quello che ci si aspetta oggi dalle persone al lavoro. Le organizzazioni sono ormai in costante cambiamento, almeno quelle che contano di mantenersi competitive, e pare che circa il 60% delle aziende sperimenti almeno tre cambiamenti importanti ogni anno. Per star dietro a questo stato di cose è importante che le persone si adattino velocemente imparando quello che c’è da imparare altrettanto velocemente. Peccato che per molti questa sfida risulta difficile, frustrante e a volte insormontabile.

Perché? E qual è la strada per l’ormai indispensabile “agile learning”?
Tralasciamo le considerazioni relative alle resistenze intrinseche di cui si è parlato molto: le persone sono naturalmente resistenti al cambiamento ed imparare costantemente porta fuori dalla zona di comfort ed è stressante e stancante.
Veniamo invece al come. Qual è l’atteggiamento giusto?
Secondo me possiamo imparare molto dai bambini e sfruttare i principi di una pratica strategica di vitale importanza ormai molto negletta e trascurata: il gioco.

Veniamo ad un altro esempio. Riceviamo un nuovo computer con installato un nuovo software per il montaggio video. L’adulto medio se non è un addetto ai lavori o se non ha un interesse specifico non lo aprirà nemmeno. Chi ha interesse cercherà qualcuno che gli insegni ad usarlo e comunque troverà le spiegazioni difficili: magari prenderà un sacco di appunti ma al momento di farlo funzionare non sarà comunque capace. Un giovane ( o un agile learner ) invece lo aprirà e comincerà a trafficare, senza sapere bene cosa fare, aprendo finestre, cliccando qua e la, provando e giocandoci. Totale: dopo poco tempo chi ci ha giocato saprà farlo funzionare, tutti gli altri no. Perché? Molto si è detto sul “gioco” come ambito creativo e di apprendimento: giocare  ci pone in uno stato in cui fallire non è preoccupante ma divertente  ed inoltre ci pone in uno stato mentale di libera esplorazione senza l’ansia della performance. Ed è in questo stato che apprendiamo. Provando, facendo e sbagliano con gioia in un ambiente rilassato e informale.

Di fronte ad una nuova sfida, software, comportamento dovremmo quindi tutti fare come il piccolo aspirante prestigiatore: afferrare il mazzo di carte e cominciare a provarci, anche senza avere una chiara direzione. Prima o poi il trucco riuscirà e ci saremo divertiti nell’impresa.


lunedì 4 settembre 2017

Perché dobbiamo sobbarcarci anche questa rogna del dover innovare?



“E’ già stato inventato tutto l’inventabile”

Questa frase è attribuita da numerose fonti a Charles H. Duell,  responsabile ufficio brevetti degli Stati Uniti, nel 1899. Ma poco importa, perché siamo tutti un po’ il Charles e diremmo o penseremmo la stessa cosa se ci sfidassero a proporre un’ idea per un prodotto o servizio davvero innovativo. Di fronte al nuovo infatti sentiamo la classica tensione da pagina bianca e ci sembra impossibile arrivare ad un idea un minimo originale. A volte la sfida ci irrita, altre la evitiamo semplicemente dichiarando “io non sono uno creativo” (di solito seguito da “ho altre qualità (serie), ad esempio…”. Questa impossibilità a concepire il nuovo sparisce istantaneamente quando ci mettono sotto il naso l’invenzione del momento, ed è allora  che scatta un meccanismo simile a quello che scatta quando un prestigiatore rivela un suo trucco: proviamo un senso di ovvietà. Come a dire “certo, ovvio, lo avrei potuto pensare anche io”.  Quasi banale. Ora, la mia tesi è che certo,  certo, potevi pensarlo (e farlo ) anche tu…ma intanto non lo hai né pensato né fatto. Perché? Il nodo cruciale dell’innovazione è tutto qui. Di fatto spesso quando ci presentano una buona nuova idea la “riconosciamo” all’istante, come se fosse sempre stata dentro di noi. Perché  allora non riusciamo a vederla noi per primi? Cosa ci rende ciechi? E perché è importante lottare per liberarsi da questo velo che abbiamo davanti agli occhi?

Cominciamo rispondendo alla seconda domanda. Come mai, tra tutte le rogne che dobbiamo sopportare nella vita, dovremmo caricarci anche della responsabilità di essere innovatori? E perché proprio noi, che abbiamo magari un normale lavoro in azienda e non siamo certo membri del team di ricerca e sviluppo di Google o di Apple? Andando per ordine…

Bisogna innovare per scappare dalla gara al massacro della competizione. La competizione sfrenata porta a sostenere battaglie costose di prezzo e costi, riducendo i margini, spremendo le persone come limoni senza creare davvero nuovo valore. L’approccio opposto è stato descritto benissimo qualche anno fa dal libro “Oceano Blu”: gli autori Kim & Mauborgne affermano che le compagnie possono avere successo non battendo i rivali, ma piuttosto creando "oceani blu" negli spazi di mercato inesplorati. Attraverso determinate mosse strategiche, si crea un salto di qualità nel valore dell'impresa, nei suoi clienti e nei dipendenti, mentre si sblocca nuova domanda riducendo la competizione a qualcosa di irrilevante. (fonte Wikipedia). Consiglio la lettura del libro per chi non lo avesse ancora fatto.

Bisogna innovare per evitare di diventare “rane bollite”: la storia ormai arcinota  (evito di ripeterla)  ci mostra che, quando un cambiamento si realizza in modo lento, sfugge alla nostra coscienza e non suscita – per la maggior parte del tempo – nessuna nostra reazione od opposizione. Un cambiamento lento, cioè un’abitudine che si acquisisce pian piano, rappresenta sempre un potenziale rischio, se non siamo perfettamente vigili sulla direzione che stiamo prendendo. Rane bollite celebri sono state ad esempio la Kodak, che ha insistito nel investire nel core business delle pellicole mentre piano piano si diffondeva la fotografia digitale, Blockbuster che non ha saputo intercettare il pericolo della tv via satellite (ed oggi dello streaming video), la Mivar, piccola eccellenza nella produzione di televisioni a tubo catodico che si è rifiutata di accettare la rivoluzione dello schermo digitale.

Bisogna innovare non solo per intercettare e non soccombere ai cambiamenti lenti ma anche per reagire a quelli dirompenti. Oggi viviamo in “tempi esponenziali e fenomeni quali le app, le nuove funzionalità disponibili, il cloud, i social network, lo shopping online, la disintermediazione possibile fanno si che interi mercati vengano spazzati via in pochi anni o anche mesi, basti pensare alle agenzie di viaggio tradizionali messe in crisi profonda dalla semplicità di acquistare biglietti aerei e pacchetti online ma anche alle banche che cominciano giustamente ad allarmarsi. Un paio di esempi famosi? What’s up, il noto sistema di messaggistica, che è passato da 0 a 450 milioni di utenti in 4 anni(1), ha messo fortemente in crisi il mercato seppur giovane degli sms.  Oppure a google maps, un applicazione gratuita basata sul cloud che ha messo in grande difficoltà i produttori tradizionali di navigatori, come Tom Tom o Garmin.

Ed infine bisogna innovare per rendere il mondo un posto migliore.


Dal libro Arance Blu: il libro dell’innovazione (su Amazon)

mercoledì 22 febbraio 2017

Il mito (falso) del multitasking



Il primo mito è che quello relativo a cosa sia il multitasking. Cercare di ascoltare una riunione mentre stiamo contemporaneamente parlando al cellulare è multitasking, o meglio un tentativo di fare multitasking destinato a fallire. Diversi studi scientifici hanno portato alla luce il fatto che non siamo in grado di portare alla coscienza due cose contemporaneamente, ad esempio concentrarci sul messaggio da scrivere ed ascoltare la riunione o ad esempio ascoltare il collega che ci parla e mandare un messaggio con il telefonino. 

Eppure vedo sempre più gente che scrive (email, messaggi, fogli excel) mentre partecipa alle riunioni o mentre finge di prestare attenzione al collega o al collaboratore. Dichiarando con orgoglio che lui ha troppo da fare per fare una cosa alla volta e che comunque vive con il suo tempo, la performance, e taac riesce a far tutto. Sono pronto alla sfida se necessario e a dimostrare che quando si prova a far così si fa male o malissimo almeno una delle due cose, se non tutte e due, e si perde anche molto più tempo.

Dicevamo che il primo mito è che quello relativo a cosa sia il multitasking (dovremmo averlo chiarito sopra) perché l’altro male che ci affligge si chiama in realtà switchtasking. Che significa passare da una attività all’altra in modo frenetico. Un esempio? Sto scrivendo una email ma ricevo una notifica di messaggio su what’s up…sospendo la email e rispondo al messaggio quindi mi viene in mente di chiamare il collega al telefono. Gli parlo e appena terminata la chiamata entra in ufficio un altro collega…quando se ne va ritorno al pc ma do prima un occhiata ai nuovi messaggi in arrivo…ne leggo due, rispondo ad uno e torno a scrivere la mail in precedenza. L’attenzione è frammentata e i risultati (negativi) sono:

       40% di produttività in meno
       2 h perse al giorno
       Danneggiamento delle relazioni!
       Non riusciamo MAI ad entrare nello stato di flusso


Eppure far passare il concetto dell'importanza di disciplinarsi, cercare di fare una cosa alla volta (nei limiti della ragionevolezza) e stare nel momento con le persone con cui siamo senza essere costantemente cablati a qualcosa è difficilissimo. Quando se ne parla grandi levate di scudi a difendere il proprio lifestyle e ad affermare con orgoglio che il proprio posto di lavoro è un tale inferno in terra dove solo gli eroi del multi/switch tasking possono sopravvivere. Il problema non è la tecnologia si badi bene, la tecnologia è fantastica. Sono i comportamenti che le si sono avvolti attorno come un’edera velenosa. Eppure tutti si lamentano di non avere abbastanza tempo e non riuscire a stare dietro al carico. Ribadisco: 2 ore perse al giorno e 40% di produttività in meno. Per non parlare della pessima impressione che fate a chi vi sta parlando mentre voi armeggiate su qualche arnese. 

Attenzione: sempre di più la vita sta diventando una fastidiosa distrazione dalla nostra email. Meditate gente, meditate.