domenica 28 febbraio 2010

Aziendal graffiti parte seconda (una riflessione sulle scimmie)



Se la cultura di un organizzazione, come detto nel post precedente, non è quella appesa ai muri tramite i soliti slogan o dichiarazioni di principi o carte dei valori, allora dov’è? E soprattutto, come si forma? Evidentemente non grazie all’ausilio della parola scritta date le considerazioni già fatte. Una possibile risposta potrebbe venire dal mondo animale, di cui è bene ricordare, facciamo parte.

Secondo l’Università di San Diego…
1. Mettete 20 scimmie in una stanza.
2. Attaccate una banana al soffitto e disponete una scala affinché le scimmie possano accedere alla banana.
3. Assicuratevi che non ci sia altro modo di raggiungere la banana se non tramite la scala.
4. Installate un meccanismo che spruzzi acqua gelida nella stanza appena un esemplare prova a salire sulla scala.
5. Le scimmie impareranno velocemente che nessuno deve provare a salire sulla scala.
6. Rimuovete il sistema per spruzzare acqua fredda in modo che salire sulla scala non abbia alcuna conseguenza.
7. Quindi rimpiazzate una delle venti scimmie con una nuova. Appena questo nuovo esemplare proverà a salire la scala verrà assalita dalle altre diciannove scimmie che le impediranno con violenza la scalata.
8. Rimpiazzate un’altra scimmia con un esemplare nuovo. Anche questo verrà fermato brutalmente, e la scimmia più determinata a somministrare la punizione sarà proprio l’esemplare nuovo introdotto poco prima.
9. Continuate il processo fino a che tutti i vecchi esemplari non saranno sostituiti.
10. Alla fine nessuna proverà a salire sulla scala e anche se qualcuna decidesse di provarci, verrebbe immediatamente massacrata dagli altri esemplari. La cosa peggiore è che nessuna delle scimmie ha la minima idea del perché!


Insomma, se diamo per buono questo pattern di apprendimento, cosa dovremmo dedurre sulla cultura delle nostre organizzazioni? Quante cose “si fanno così” o “non si fanno così” e a ben pensarci non abbiamo nessuna idea del perché? E se togliamo il principale mezzo di comunicazione usato dalle scimmie nell’esperimento, ovvero il massacrarsi fisicamente di botte a vicenda, quale altro strumento usano gli esseri umani per trasmettere la cultura?
Forse per avere la risposta a questa domanda dovremmo fare un piccolo passaggio evolutivo e dalle scimmie passare agli uomini delle caverne. Alla prossima.

domenica 21 febbraio 2010

Aziendal graffiti parte prima



Sono fermo in piedi. Davanti a me un bancone stile reception. Dietro una signorina che scrive al computer. Sto così da almeno un paio di minuti. Io aspetto, lei scrive. Io la guardo, lei guarda lo schermo. Io mi guardo intorno spazientito. E dietro la signorina mi soffermo su un cartello che recita “la soddisfazione e la cura del cliente per noi sono prioritari”. Torno a guardare la signorina. Immobile. Io e lei. Ancora qualche minuto e finalmente rotea gli occhi di un paio di gradi e incontra il mio sguardo. Tra di noi circa 50 cm. “Aveva bisogno?”. Avrei voluto dirle “no, assolutamente. Amo passare le mie giornate in piedi immobile ad ascoltare il tic tac di una tastiera di computer. Mi rilassa”. Dico “si, ho telefonato e prenotato, dovrei lasciare l’auto per il tagliando”. Lei tornando con lo sguardo al pc dice “deve parlare con il collega” e mi indica un ufficio vuoto. La storia potrebbe andare avanti ancora a lungo (come di fatto la mia permanenza in quei luoghi e la maratona del mio tagliando). La riflessione nasce piuttosto in fretta. Le organizzazioni, piccole o grandi amano darsi codici o linee guida di comportamento, etiche o valoriali. E va bene. Per lo più le medesime sono rappresentate sotto forma di cartelloni, quadri, poster appesi ovunque. Graffiti moderni che decorano tutte le aziende. Una full immersion di buon senso e belle parole. Eppure spesso la sperimentazione diretta mostra comportamenti ben lontani, se non all’antitesi, di quanto proclamato sui muri. Com’è?
Facciamo un esperimento. Provate ad immaginare di voler scrivere la carta dei valori o delle regole di comportamento di casa vostra. Diciamo almeno due o tre punti. Via.
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Bene. A qualcuno è venuto in mente di scrivere “in questa casa non si ammazza?”. Immagino di no. ”Non uccidere” è, normalmente, qualcosa di più di una regola o un principio o un valore. Probabilmente rientra nella categoria che potremo chiamare delle “assunzioni di base”. Assunzioni talmente vere e radicate dentro di noi che non ci viene neanche in mente di renderle esplicite. La vera cultura di una persona, o di un’ organizzazione, è vissuta quotidianamente in modo inconsapevole ed è addirittura difficile “estrarla” e formalizzarla. Insomma, se è vero e profondo non ci viene neanche in mente di scriverlo da qualche parte. Allora cosa sono tutte quelle scritte sui muri? Se seguiamo la logica del ragionamento potremo dire “regole, valori e principi “che vorremmo ci fossero e che non ci sono. La grande illusione è che semplicemente avendoli sotto gli occhi in qualche modo serva ad influenzare il comportamento. Il che è assolutamente falso, infatti quello che abbiamo sempre sotto gli occhi diventa rapidamente invisibile. Se non ci credete provate a dire (senza guardare) cosa c’è sul retro della banconota da 10 €.
Insomma, personalmente diffido dalla esplicitazione, sia personale che aziendale, di valori o norme di comportamento. La signorina al pc e la sua abilità quasi soprannaturale di ignorarmi ne è un esempio. Empiricamente mi sento di dire che “se viene dichiarato esplicitamente” allora non è “vissuto veramente”. E mi vengono in mente alcuni casi di organizzazioni lestissime a licenziare i cui muri dichiaravano “le persone sono il nostro capitale più importante”. Altre in cui ogni persona ammetteva che bisognava innanzitutto “pararsi il fondoschiena” per andare avanti i cui muri inneggiavano all’onestà, al rispetto e alla trasparenza. Restano alcune domande. Come si forma davvero una cultura aziendale? E se non è quella “appesa ai muri”, come possiamo “estrarla” Una possibile risposta alla prima domanda viene dal comportamento delle scimmie. Per la seconda forse dobbiamo tornare ai tempi in cui ancora la scrittura non esisteva. Ma questa è un’altra storia.

lunedì 15 febbraio 2010

“Nel magico mondo del feedback” parte prima



La verità è tanto più difficile da sentire quanto più a lungo la si è taciuta. (Anne Frank)

Nelle aziende ogni tanto se ne parla “I nostri manager devono essere più assertivi”, “ci vuole più chiarezza”, “dobbiamo sviluppare la cultura del feedback”. Tra l’altro questa necessità a volte genera situazioni paradossali. Ho assistito a questo dialogo tra un manager e un formatore chiamato ad aiutarlo a risolvere un problema con una sua persona. “E’ troppo molle con i suoi collaboratori, non osa mai dire niente, gli altri se ne approfittano. Dovete insegnargli a dare feedback”, aveva detto perentorio il manager. Il coach, facendo il suo lavoro, aveva chiesto: “come ha reagito quando gli avete fatto osservare questa sua lacuna?”. E la risposta era stata: “no no, non gli abbiamo detto niente, è molto sensibile e potrebbe offendersi”. Ecco, questi sono gli italiani alla presa con lo spinoso tema del feedback. Diciamocelo, noi questa capacità di andare diritti al punto e dire esattamente quello che pensiamo, soprattutto se in qualche modo “negativo” proprio non la abbiamo nel DNA. Non è così dappertutto. In certi paesi europei dire ad un altro (amico, collega, collaboratore, addirittura capo) quello che si pensa in modo schietto e diretto è normale. In certi ambiti quasi sacro. Giusto per citare un caso ricordo un feedback datomi da un collega olandese durante il mio periodo di formazione all’interno di una multinazionale di cultura fortemente nordeuropea. Sapevo che avrei dovuto ascoltare, e sapevo che mi avrebbe fatto male. Il feedback è arrivato e sì, ha fatto male. Avevo deciso a priori che avrei accettato la situazione facendo buon viso a cattivo gioco e nonostante sentissi la faccia avvampare dal caldo e le gambe tremare, nonostante fosche visioni di vendetta mi passassero davanti, ero anche riuscito a controllarmi e a dire, la voce strozzata, “ok”. Non era finita però. Il collega continuava a fissarmi con occhi di ghiaccio. Silenzio. Dopo alcuni interminabili secondi ha proseguito chiedendo “Scusa, credi che il mio feedback sia stato importante?”. Annuii. “E allora un ringraziamento sarebbe la cosa più opportuna, no? Quanto è importante dare un riscontro a chi ti aiuta segnalandoti le tue aree di miglioramento?”. Ecco, mi avevano dato feedback e subito dopo un altro feedback su come avevo accolto il primo feedback. Insomma ci sono evidentemente culture e predisposizioni diverse relativamente alla comunicazione. Noi italiani siamo più orientati verso l’iperbole, il meta messaggio sottile, la comunicazione induttiva. Ma in qualche modo intuiamo a livello personale o aziendale che essere più assertivi in generale potrebbe aiutarci. Come mai? Perché forse sappiamo che il non detto in qualche modo “fermenta” dentro di noi creando tensioni personali e interpersonali e accumulo di tossine che prima o poi esplodono in momenti di rabbia. Oppure sfociano in comportamenti altamente scorretti. Mi hanno raccontato questa storia: in un’ azienda era stata assunta una nuova ragazza che aveva un problema di ipertraspirazione… insomma, “puzzava un po’”. Probabilmente un bel “po’” visto che nessuno voleva stare vicino a lei, neanche il tempo di un caffè e soprattutto a pranzo. Isolata completamente e senza sapere il perché dopo alcuni mesi ha fatto causa all’azienda per mobbing. E poi se ne è andata. Magari bastava farle notare il problema. Al di là di questo caso estremo una comunicazione chiara, sincera e diretta è fondamentale per un buon lavoro di squadra e indispensabile se gestiamo collaboratori. Tra l’altro comunicazione chiara, diretta e sincera non riguarda solo il “feedback” inteso come area di miglioramento ma anche il “feedback positivo”. Sarà sorprendente ma abbiamo gli stessi problemi comunicazionali. Come fare allora a innescare in modo utile e non traumatico questa modalità di comunicazione? Ne parleremo prossimamente.
PS: feedback su questo post?

domenica 7 febbraio 2010

Per mettere tutto in prospettiva




Regolamento dell’ufficio di un’ azienda tessile piemontese del 1884

"Gli impiegati dell’ufficio devono scopare i pavimenti ogni mattina, spolverare i mobili, gli scaffali e le vetrine.

Ogni giorno devono riempire le lampade a petrolio , pulirne i cappelli e regolarne gli stoppini e una volta la settimana devono lavare le finestre.

Ciascun impiegato dovrà portare un secchio d’acqua e uno di carbone per le necessità della giornata.

Tenere le penne con cura. Ciascuno può fare la punta ai pennini secondo il proprio gusto.

Questo ufficio si apre alle 7 del mattino e si chiude alle 8 della sera, eccettuata la domenica nel qual giorno resterà chiuso. Ci si aspetta che ciascun impiegato passi la domenica dedicandosi alla chiesa e contribuendo liberamente alla causa di Dio.

Gli impiegati uomini avranno una sera libera alla settimana a scopo di svago e per due sere libere andranno regolarmente in chiesa.

Dopo che un impiegato ha lavorato per 13 ore in ufficio dovrà passare il rimanente tempo leggendo la Bibbia o altri buoni libri.

Ciascun impiegato dovrà mettere da parte una somma considerevole della sua paga per gli anni della vecchiaia in modo che egli non diventi un peso per la società.

Ogni impiegato che fumi sigari spagnoli, faccia uso di liquori in qualsiasi forma, frequenti bigliardi o sale pubbliche o vada a radersi dal barbiere, ci darà una buona ragione per sospettare del suo valore, delle sue intenzioni, della sua integrità e onestà.

L’impiegato che avrà svolto il suo lavoro fedelmente e senza errori per cinque anni avrà un aumento di 5 (cinque) centesimi al giorno, ammesso che i profitti dell’azienda lo permettano."

Brrrrr

lunedì 1 febbraio 2010

Esplorando scenari alternativi



Perché gli uomini ad un certo punto della storia del pianeta anno cominciato ad uscire di casa, tutti alla stessa ora, e fare più o meno strada per raggiungere un posto di lavoro dove avrebbero passato la maggior parte della loro giornata? Molto semplice: perché si era passati da un sistema agricolo-artigianale-commerciale all’era industriale. E dati i tempi era fondamentale che gli operai lavorassero tutti assieme, dipendendo ciascuno dal lavoro dell’altro. Passando dalla fabbrica agli uffici il principio non cambiava: niente internet o posta elettronica ovviamente e molto lavoro “manuale” seppure sulla carta piuttosto che al tornio.
Veniamo ad oggi. Nonostante le rivoluzioni tecnologiche e il sostanziale miglioramento delle condizioni di lavoro e dei diritti umani, l’organizzazione delle aziende è rimasta la stessa dell’Inghilterra del 1800. Ancora oggi tutti i lavoratori escono di casa circa alla stessa ora e raggiungono un luogo fisico per espletare il loro lavoro anche se non si tratta di un impiego legato alla produzione fisica di “cose”. Che ci sia un disallineamento tra la velocità dell’innovazione tecnologica (veloce) e dei comportamenti delle persone e delle organizzazioni (lenti) è innegabile. Con alcune conseguenze negative e strani effetti collaterali. Il più interessante è secondo me il presenzialismo che in due parole si può riassumere con: siamo valutati da quanto siamo percepiti presenti ed impegnati piuttosto che sul risultato finale del nostro lavoro. Il che in certi casi genera situazioni fantozziane: passiamo ore in coda per raggiungere l’ufficio, partecipiamo a noiosissime e lunghissime riunioni dove facciamo inutili domande solo per sottolineare la nostra presenza e ci aggiriamo nei corridoi sempre tenendo un foglio in mano così da dare l’idea a chi ci incontra di stare facendo qualcosa di utile.

Come potrebbe funzionare quindi un organizzazione alternativa? Qualcuno ci ha pensato. Un caso di proposta su cui è interessante fantasticare è contraddistinta dalla sigla ROWE e se la sono inventata in USA. ROWE sta per Results Only Work Environment e un paio di aziende l’hanno già messa in pratica, apparentemente con eccellenti risultati di produttività e fidelizzazione del personale. Il senso è chiaro: organizzati il lavoro come vuoi e quando vuoi, fai quello che ti pare. L’importante è che tu raggiunga i tuoi obiettivi nei tempi stabiliti.
Sulla carta il concetto non fa una piega. Pensando all’applicabilità, almeno nel contesto attuale, sembra più complicato. Innanzitutto perché ci sono lavori il cui output è difficilmente quantificabile, anche se mi viene da pensare che questo è uno dei problemi delle organizzazioni attuali. Il secondo ostacolo è legato al fatto che, affinché il metodo funzioni, ci devono essere per tutti obiettivi chiari. Sembrerebbe scontato ma alla domanda “quali sono i tuoi obiettivi?” molte persone rispondono in modo vago e infastidito. Il terzo è più che altro una supposizione, ovvero che il creativissimo italiano medio potrebbe trovare facili escamotage per non lavorare proprio e prendere lo stipendio. A me non viene in mente nulla ma sono sicuro che se un sistema ci fosse, noi come popolo lo troveremmo. Un'altra obiezione che mi aspetterei sul sistema ROWE è che le persone hanno bisogno di vedersi, frequentarsi e comunicare, e implementando il metodo tutti starebbero comodamente a casa propria. Vero. Ma innanzitutto il metodo non implica il lavorare da casa, piuttosto secondo una propria organizzazione svincolata da schemi imposti. Parlando poi del “comunicare” tra colleghi pare che il 90% del tempo le persone al lavoro preferiscano la email anche se sono vicini di scrivania e se hanno un minuto libero amano passarlo su qualche social network con persone che non vedono mai dal vivo. Insomma, forse non siamo pronti a implementare cambiamenti tanto dirompenti, ma non è bello pensare ad una rinnovata libertà degli impiegati di tutto il mondo, a una migliore gestione personale, a città meno intasate di pendolari, a traffico meno congestionato? Forse in un lontanissimo futuro quando guarderemo al modo in cui lavoravamo “oggi” ci verrà da sorridere con la tenerezza che riserviamo a situazioni di disarmante ingenuità.