domenica 28 marzo 2010

Piccoli comici spaventati managers




Un primo segnale è dato dalla loro reazione all’invito di partecipare (a una riunione, ad un evento, a un corso) in abbigliamento business casual. Vanno in crisi, si arrabbiano anche. E non hanno la più pallida idea di come arrangiarsi. Ecco, ci sono persone e persone. Ci sono managers e managers. E c’è una categoria dei medesimi che riconosco, ma faccio fatica a descrivere o etichettare.

Sono quelli che privati dell’ ortodosso abito si sentono nudi, delegittimati, esposti, spaesati, senza più riferimenti. E che all’invito “business casual” reagiscono secondo due opposti. O rimettono il solito abito togliendo semplicemente la cravatta, oppure sfoggiano jeans strappati, scarpe da basket retaggio degli anni 80, gillet di pelle e altre diavolerie. E si sentono pesantemente a disagio comunque. Si dice che il lavoro principale di un manager sia di gestire il “cambiamento”; se il mondo del business fosse ordinato e regolato da leggi immutabili, che bisogno ci sarebbe di loro? Ecco, questi strapagati professionisti, al timone di aziende o anche piccoli gruppi di persone, vanno in confusione dovendo cambiare il loro consolidato “dress code”. Siamo in una botte di ferro. Un altro segnale è dato dal loro rapporto feticista con l’auto aziendale che pare sia l’evidente manifestazione concreta del loro status. Ora capisco che avere una bella audi faccia più piacere di una panda van (per nulla togliere alla simpaticissima panda). Ma non è questo il livello a cui si manifesta la tensione.

Esempio (vissuto): il manager è al telefono, cammina nervosamente avanti e indietro, è rosso in volto e gesticola. Chiude la telefonata e mi guarda con sguardo complice e corrucciato. Silenzio. “Capisci come siamo messi in questa azienda? Non andiamo da nessuna parte in un organizzazione tanto ottusa, rigida, priva di flessibilità”. Io penso a qualche sfida strategica fallita, alla concorrenza che sta guadagnando enormi quote di mercato, a tagli dei costi sovraumani. Il manager prosegue “dovevamo cambiare l’auto aziendale e avevo chiesto la “grandphyton 2000 special”, quella con il tettuccio apribile. Ora, mi dicono che la “grandphyton 2000 special” è di una categoria superiore, non posso averla, e mi obbligano a prendere la grandphyton 2000 normale. Senza tettuccio. Ti rendi conto?”. Non mi rendo conto. Il resto della giornata viene dedicato alla rabbia, alla recriminazione e a mille telefonate a capi e colleghi per cercare di risolvere l’annoso problema. Mi sembra un’ottima allocazione di tempo ed energie.

Sono loro, quei tipi di managers che appena ti incontrano ti squadrano da capo a piedi per capire se il tuo abito è all’altezza. Che ti guardano le scarpe. Che giudicano il risultato di una riunione dalla cena e dal ristorante. E che se sono stati costretti a partecipare ad un corso (se fosse per loro ovviamente non c’è ne sarebbe alcun bisogno) apprezzano l’intrattenimento e mai la messa in gioco. Che amano fare regali ai loro collaboratori, essere popolari, ma che se c’è un rimprovero o una situazione spinosa da gestire, corrono a chiedere aiuto al loro diretto responsabile. Che spettegolano. Che litigano. Che criticano sempre e comunque la loro azienda e sognano, sempre, di lavorare per un'altra, con colleghi più simpatici, auto più lussuose e telefonini più prestigiosi. E che di fronte ai problemi tutto fanno tranne che fermarsi a pensare, elaborare una strategia e quindi agire con coerenza e coraggio.

Piccoli comici spaventati managers. Senza di loro tutti noi che ci occupiamo di formazione e coaching saremmo senza lavoro.

domenica 21 marzo 2010

Gli obiettivi, Deming e la ricerca della Via



Per chi non lo conoscesse, Deming è è stato un consulente Statunitense famoso per il suo lavoro sulla qualità. In particolare aiutò l’industria giapponese a diventare supercompetitiva insegnando come con l'adozione di opportuni principi di gestione, le aziende possono aumentare la qualità e contemporaneamente ridurre i costi e aumentando la fidelizzazione dei clienti. La chiave è quella di praticare un continuo miglioramento (in giapponese "Kaizen"). Il peso di quest’uomo nella storia dell’industria è stato fondamentale, anche se solo alla fine della sua carriera il suo valore è stato riconosciuto in patria. Deming identificava 14 punti fondamentali che i “total quality managers” avrebbero dovuto seguire. Il punto 11 suggeriva, in sintesi, di eliminare il “management by objectives”. Ebbene si, uno dei più grandi geni della storia industriale sosteneva come ogni tecnica motivazionale con eccessivo focus sulla “quantità” fosse organizzativamente disfunzionale. Attimo di silenzio.
Chiunque abbia ricevuto un minimo di formazione “manageriale” potrebbe sentirsi destabilizzato dalle affermazioni di Deming poiché sarà sicuramente stato indottrinato sulla importanza di un “management by objectives”. Se alle persone non vengono dati obiettivi quantitativi non è possibile il controllo, loro non saranno motivate, l’annual appraisal non avrà senso etc etc. Il discorso in realtà diventa più ampio e filosofico. Anche perché un modello di pensiero basato sulla “quantità” è alla base del pensiero occidentale.
Ma scendiamo di livello vediamo con un esempio concreto come concentrarci solo sugli obiettivi può essere disfunzionale. Immaginiamo Evaristo, un giovane commerciale assunto da poco. La sua principale attività è quella di fissare appuntamenti telefonici con potenziali clienti che poi dovrà incontrare per vendere il suo prodotto. Il suo capo giustamente si siede con lui e discutono del come e del quanto. In particolare si concentrano su quante telefonate al giorno Evaristo potrà fare e conseguentemente quanti appuntamenti ci si aspetta che prenda entro la fine del mese. Un mese dopo i due si re incontrano e il capo verifica immediatamente il numero di appuntamenti presi. Evaristo mogio dichiara di non ha raggiunto l’obiettivo e il capo si mostra indispettito e mette in discussione la sua “motivazione”. Infine vengono fissati nuovi obiettivi per il mese successivo. Nuovo incontro e Evaristo è raggiante. Stavolta c’è l’ha fatta; complimenti del capo e tutti sono felici e contenti. Qual è il problema? Che per raggiungere l’obiettivo ha preso appuntamenti con “cani e porci” (passatemi il francesismo), insomma con aziende con palese potenzialità commerciale nulla. Appuntamenti a cui comunque dovrà andare e che impegneranno moltissimo tempo. Sprecato. Dove è il problema qui? Nella capacità o motivazione del ragazzo nel prendere appuntamenti? Forse no perché per raggiungere l’obiettivo ha comunque dovuto telefonare e far valere se sue capacità comunicazionali al telefono. E allora forse ci si sarebbe dovuti concentrare meglio sul processo: innanzitutto verificando “on the job” la possibilità di migliorare la strategia di approccio di Evaristo ai clienti con potenziale. E se non si fossero evidenziate aree critiche pensare di rimettere in discussione tutta la strategia, magari modificando la comunicazione dell’azienda all’esterno, cambiando la targettizzazione etc etc. Insomma un lavoro molto più impegnativo sia a livello di tempo che di “capacità di messa in discussione” del manager in questione. Molto più comodo contare il numero di appuntamenti. Risultato: il processo disfunzionale di approccio al mercato rimane tale e quale, nessun apprendimento organizzativo e un gran spreco di energie.
Insomma, gli obiettivi vanno bene, ma attenzione perché possono portarci fuori strada. Come ci fa capire in modo fulminante questa antica storiella orientale.

Un giovane attraversò tutto il Giappone per raggiungere una famosa palestra di arti marziali. Arrivato al cospetto del maestro disse “voglio studiare con te e diventare il più abile combattente del Giappone. Quanto tempo mi ci vorrà?”. “Almeno dieci anni” rispose il maestro. “E se studiassi il doppio dei tuoi allievi?” continuo il giovane. “Allora ci vorranno vent’anni”, rispose il maestro. “Vent’anni? E se io mi mettessi a praticare giorno e note con tutte le mie forze?”. “Trent’anni”, fece il maestro. “Ma come è possibile che ogni volta che ti dico che ci metterò più impegno, mi dici che ci vorrà più tempo?”, chiese il ragazzo sconcertato. “La risposta è semplice. Se un occhio è continuamente fisso sulla destinazione finale, resterà solo l’altro occhio per cercare la Via”.

domenica 14 marzo 2010

“Nel magico mondo del feedback” parte seconda



Dicevamo che la cultura italiana non è troppo focalizzata sulla comunicazione chiara e diretta. Non è sempre vero; il problema è che tendiamo facilmente a cadere negli eccessi. Capita di incontrare persone che dichiarano con orgoglio “io non ho peli sulla lingua e se devo dire qualcosa la dico”. Bene. Salvo il fatto che questi “terminator” forse qualche pelucchio farebbero bene ad averlo…poiché si scopre che animati da un sacro fuoco di distruzione si aggirano come condor in cerca di preda e si scagliano su qualsiasi cosa, attività o comportamento che a loro non piace. E di solito a loro non piacciono moltissime cose. Risultato? Vengono schivati come la peste e se parliamo di un ambiente di lavoro installano nei colleghi o collaboratori l’abitudine alla furtività. Evidentemente a nessuno piace essere tempestato di micro rimproveri, commenti negativi, feedback depressivi e per un naturale istinto di sopravvivenza si tende a fornire meno appigli possibili. Risultato: il terminator non avrà mai un quadro chiaro e completo dello stato delle cose e dei processi e i suoi feedback invece di sortire un effetto positivo saranno vissuti come un inevitabile pioggia sporca da asciugarsi da addosso il più in fretta possibile. Se poi in azienda i terminator sono molti avremo l’effetto Otis Reddings che in “Sittin On The Dock Of The Bay” diceva:

"I cant do what ten people tell me to do, so I guess I'll remain the same"

In sintesi: tantissimi feedback da direzioni diverse, nessun cambiamento.

L’altra faccia della medaglia è ovviamente quella di una comunicazione poco chiara e fumosa. Risultato? Chi fa stupidaggini o semplicemente sbaglia perché sta imparando non avrà mai modo di migliorare e chi si accorge delle stupidaggini e non dice niente si porterà a casa gran mal di pancia e accumulerà frustrazione.
Cosa serve allora per sviluppare una cultura del feedback equilibrata e costruttiva? Ecco alcuni punti…

1) Aver capito il senso di questo strumento
2) Avere la motivazione di uscire un poco dalla nostra zona di comfort
3) Avere gli strumenti comunicazionali per farlo al meglio
4) Avere la giusta intenzione

In particolare questo ultimo punto è forse il più importante. Cosa significa “la giusta intenzione?”
In sintesi, se diamo feedback per :
• Avere ragione - Averla vinta - Apparire migliore – Punire -Sfogarci

allora non c’è tecnica di comunicazione che regga. L’altro percepirà comunque la nostra intenzione e il risultato sarà comunque negativo per entrambi. Se invece decidiamo di dare feedback per:

• Ottenere risultati - Rinforzare la relazione - Essere onesti –Aiutare

allora forse possiamo sperare che, nonostante qualche resistenza inevitabile, il messaggio passi e che alla fine le persone coinvolte nel processo possano evolvere ad un livello di relazione-comunicazione più alto. Ce la potremo mai fare? A volte ho dei dubbi…come quando dopo un’intera giornata di discussione sul tema un non più giovanissimo manager decise di dare un feedback ad un collega in questa forma:

“caro collega, non ti dico niente perché ho troppa stima di te. Altrimenti dovrei mandarti a f@#k/o”.

Sono soddisfazioni!

domenica 7 marzo 2010

Aziendal graffiti parte terza: dalle caverne a oggi ovvero il potere delle storie



"Come mai Salomone era riconosciuto come il più saggio degli uomini? Perché conosceva più storie degli altri. Grattando la superficie di un tipico consiglio di amministrazione scopriamo di essere ancora uomini delle caverne con la valigetta, ansiosi di ascoltare storie raccontate da una persona saggia”. Alan Kay, vice presidente della Walt Disney

Nel post precedente ci si chiedeva quale fosse il principale strumento usato dagli esseri umani per fondare e trasmettere la cultura di un’organizzazione. La risposta è forse molto semplice: tramite le storie che raccontiamo. Ovviamente a voce.
Ci sono molti modi di interpretare questo fenomeno “naturale” all’interno delle organizzazioni. Ad esempio secondo Jim March di Stanford i pettegolezzi non sono poi così male. Già perché, al di la di qualche inevitabile malignità non sono che notizie che devi sapere su persone che devi conoscere. Un mezzo inevitabile e, forse l’unico disponibile, per capire se un’altra persona è affidabile. Ma le storie sono più di questo. Le storie sul lavoro stesso, e sulla sua natura hanno provato essere più efficaci della documentazione scritta per aiutare i colleghi a risolvere problemi. Innanzitutto perché è più facile capire una persona che spiega un processo piuttosto che leggere una documentazione tecnica, e soprattutto perché sentiamo il bisogno di interazione, di fare domande, di ascoltare consigli.
E ancora le “favole” e i “miti” trasmessi oralmente hanno un eccezionale potere di comunicazione non solo internamente ad una organizzazione ma anche esternamente, verso i clienti, i partner ed anche i concorrenti. Questo perché si rivolgono ad entrambe le parti della mente: quella razionale e quella emotiva. Inoltre parlando di cambiamento o sfide future le storie aiutano a creare una mappa per disegnare la strada da percorrere. Non che gli aspetti logici e razionali non servano, ma trascurare quelli emotivi sarebbe un errore perché sappiamo benissimo il ruolo delle emozioni nei nostri processi decisionali. Tra l’altro il fenomeno del raccontare non va innescato, fa parte della natura umana ed è inevitabile; il punto non è raccontare, il punto è stare a sentire e far leva su un ricchissimo capitale di conoscenza già disponibile.
In sintesi le storie sono un mezzo meraviglioso poiché incorporano in un formato compatto informazioni, conoscenza, contesto ed emozioni. Creano conoscenza, cultura e danno direzione. Oggi come secoli fa, quando passavamo le serate attorno al confortante fuoco che ci proteggeva dalle fiere ed imparavamo a diventare uomini e le regole della nostra società dalle parole dei vecchi saggi.
Il concetto non è una novità e infatti molte organizzazioni si stanno muovendo per raccogliere, trasmettere, creare storie per comunicare internamente ed esternamente. E funziona. Ovviamente a patto di usare le “giuste parole” come racconta in modo meraviglioso Benigni in uno spezzone del film “La tigre e la neve” (http://www.youtube.com/watch?v=IpQHcCisKEA).

Ma questa è un’altra storia :-)