venerdì 12 dicembre 2014

Praticare la bellezza


La bellezza salverà il mondo”. F. Dovstoveskij

Grazie alla scoperta dei neuroscienziati di Parma, oggi sappiamo che nel nostro cervello c’è una particolare classe di neuroni che funziona per imitazione. I neuroni specchio entrano in gioco nell’osservazione del comportamento degli altri, attivandosi come in chi esegue l'azione. Per esempio, se guardiamo una persona che beve una bibita dissetante, ecco che nel nostro cervello si attivano le aree necessarie a compiere esattamente quel gesto, anche se noi poi non lo facciamo. Qualcuno, grazie a questo effetto, riesce persino ad avvertire la sensazione di fresco nella sua bocca. Questi neuroni, quindi, riflettono, come uno specchio appunto, quello che vedono accadere nel cervello altrui. La scoperta della presenza di queste cellule anche in aree cerebrali diverse da quelle deputate al solo movimento, offre la possibilità di compiere un nuovo salto in avanti nella conoscenza del complesso meccanismo biologico alla base del comportamento sociale dell’uomo e della sua interazione con l’ambiente. In quest’ambito è stato indagato il rapporto tra neuroni specchio e opere d’arte, osservando cosa accade ad esempio nel cervello di chi si trova di fronte a una statua classica greca: le opere greche attivano i neuroni specchio dell’empatia, che è quella capacità di condividere e compartecipare le emozioni dell’altro. La bellezza renderebbe, in particolare, più forte l’empatia di chi la guarda: avrebbe il potere di generare altra bellezza.

Come potremmo utilizzare praticamente e in modo vantaggioso questo meccanismo? Non essendo, ahimè, tutti artisti e non potendo quotidianamente dilettarci nel tentativo di diventarlo, o di realizzare opere d’arte, cosa ce ne possiamo fare di questa scoperta? Un aiuto arriva dall’affermazione di Lev Tolstoj “non si tratta di rincorrere la bellezza, quanto di cercare quello che dà come conseguenza la bellezza”. Come possiamo promuovere il bello nel nostro agire quotidiano, all’interno delle nostre organizzazioni? Quali parti attive di un eco sistema che anche da noi dipende ed è influenzato, ci chiediamo mai quali sono i nostri comportamenti che hanno come conseguenza la bellezza? Rifacciamoci agli antichi, secondo i quali il concetto di bello era legato al vero e al buono. In questo senso potremmo, ad esempio, interrogarci su quanto ci sia di vero e di buono nelle nostre interazioni con i clienti, con i colleghi, con i collaboratori, con i superiori. Come contribuiamo a rendere migliore il nostro contesto, l’ambiente che animiamo ogni giorno con la nostra presenza? Cosa succederebbe se ciascuno di noi ogni giorno, praticasse quel po’ di bellezza?

Alessandra Giardiello

domenica 23 novembre 2014

Le frustate del subconscio e le “to do” list


Dovunque si guardi nella storia della cultura, si trovano le liste” Umberto Eco
Vi è mai capitato di sentire un piccolo pezzo di una canzone e in seguito, magari per tutta la giornata, la stessa canzone ha continuato a tornarvi in mente a strani intervalli? E se mai avete visto una soap opera avete notato che ogni puntata tende a terminare in mezzo ad una scena che non si conclude? Sono due facce di un meccanismo interessante che si chiama effetto Zeigarnik e, oltre che con le canzoni e le soap operas, ha a che vedere con il successo planetario delle famigerate “to do list”. Ma andiamo per ordine.
Questo effetto è stato “scoperto” dalla psicologa tedesca Bluma Zeigarnik grazie all’osservazione di un cameriere che riusciva a ricordare un numero incredibile di ordinazioni fatte dai clienti fino al momento di servirli. Dopo aver evaso le ordinazioni non ricordava più che cosa aveva servito. La psicologa fece altri studi e in sintesi scoprì che un compito incompleto, un attività lasciata a metà, crea una tensione psichica che ci costringe a completare e concludere, impedendoci o se non altro rendendoci molto difficile concentrarsi su altri processi mentali. Ecco perché le canzoni lasciate a metà continuano a tormentarci, ecco perché siamo costretti a vedere come “va a finire” la soap interrotta sul più bello. Ed ecco perché tanti personaggi famosi e non della storia si sono molto seriamente appoggiati alle to do list: in sintesi una volta che abbiamo scritto una cosa da fare il nostro subconscio ci stressa inviandoci segnali che ci spingono a terminarla. A volte ci frusta letteralmente per stimolarci a chiudere quello che abbiamo lasciato aperto. Scoperte recenti hanno poi approfondito l’effetto Zeigarnik evidenziando che i pensieri “disturbanti” che ci invia il subconscio non siano volti a farci proprio terminare il compito in sospeso. Invece pare che il subconscio chieda al conscio di fare un piano, visto che apparentemente non è in grado di farlo da solo. E parliamo proprio di un piano con step specifici e obiettivi SMART. Una volta che questo piano è fatto finalmente il subconscio smette di tormentarci con i suoi “richiami” al completamento.
In ogni caso pare sia una cosa da accettare…siamo uomini, siamo fatti così, dobbiamo chiudere i cerchi, mettere i puntini sulle i. E o lo facciamo subito o almeno dobbiamo pianificare. Ed ecco perché le to do list sono uno strumento usato dalla notte dei tempi (pare che le prime risalgano ai Sumeri)…accendono questo strano effetto psicologico che ci infligge la tortura dell’ansia da completamento. Non senza problemi però. Per esempio è stato dimostrato che uno dei difetti delle to do list è cercare di fare troppe cose assieme con conseguente conflitto di obiettivi. E quindi maggior stress e problemi. Inoltre la to do list porta talvolta  l’incapacità di interrompere un lavoro fino a quando non l’abbiamo finito o l’incapacità di lavorare in multitasking a causa dell’urgenza psicologica di affrontare un lavoro per volta.

Quale può essere una morale? Sicuramente quella di usare la to do list con parsimonia, limitandoci a pochi specifici elementi non in conflitto tra di loro. Fare diversamente ci condanna a subire le frustate del subconscio e ad intrappolarci con le nostre mani a sentire la “canzone” delle cose da fare in testa tutto il giorno.

Paolo Mazzaglia

sabato 11 ottobre 2014

Obiettivi, benedetti obiettivi, maledetti obiettivi

Gli obiettivi sono fondamentali. Nel business è quasi impensabile pensare di andare avanti senza ed è praticamente impossibile trovare qualcuno che osi contrastare la sacralità di questo modello di pensiero.
Tutto sommato non è sbagliato…gli obiettivi servono per aumentare le vendite, riuscire a correre una maratona o ottenere qualunque risultato a casa o al lavoro. E se proprio siamo destrutturati e vogliamo avere un pizzico di risultati cominciare a ragionare per obiettivi non può che farci bene. Ok. Eppure se proviamo a spostare leggermente la visuale forse c’è un livello superiore o forse solo un angolo diverso.
Esiste uno studio universitario, Goals Gone Wilde, che illustra gli “Systematic Side Effects of Over-Prescribing Goal Setting”.
Gli autori identificano in sintesi alcuni “effetti collaterali” (e l’analogia con i farmaci non è casuale) derivanti da un “eccesso” di concentrazione sugli obiettivi. Tra questi un eccessivo focus, che come dice la parola stessa è un chiudersi del campo visivo su un area ristretta, e che come conseguenze ha:
A.    il trascurare (fino ad ignorare completamente) le aree che sono al di fuori dell’obiettivo
B.    la perdita di opportunità a portata di mano che però proprio perché troppo focalizzati non vediamo
Un esempio di questi fenomeni è rappresentato da alcune agenzie focalizzate ad essere le migliori a realizzare spot TV che hanno perso completamente il treno rappresentato dalla rivoluzione digitale.
Altri effetti collaterali sono: una diminuzione dell’apprendimento, la corrosione della cultura aziendale, la riduzione della famosa motivazione intrinseca (ne abbiamo parlato qui) ed anche la nascita di comportamenti non etici (negli Stati Uniti ad esempio si è assistito al fenomeno di insegnanti che falsificavano i dati quando erano messi sotto pressione dall’obiettivo di migliorare i risultati degli allievi).
Gli autori del documento raccomandano in sintesi non di evitare gli obiettivi, ma di trattarli come un farmaco che funziona ma solo nelle giuste dosi e che richiede monitoraggio costante.
E per operare ed avere successo senza troppa enfasi sugli obiettivi cosa serve? E’ una bella domanda con una risposta ancora migliore. Serve gente appassionata innanzitutto, gente che va ispirata e guidata verso il successo grazie all’esempio, alla motivazione, allo scambio e ad una buona dose di feedback costruttivi. Serve anche non avere troppa paura del caos, serve avere le antenne puntate verso il mondo, il mercato ed è fondamentale avere la capacità di percepire i segnali anche deboli ed adattarsi velocemente. E obiettivi rigidi (assieme ai cugini stretti: le procedure) sono nemici del cambiamento.

Se l’organizzazione è troppo rigida e stressata quindi occhio: forse per inseguire i risultati in un mondo competitivo come quello di oggi forse stiamo subendo un overdose di “obiettivi e procedure”, mollare un po’ ed aver fiducia nelle persone non può che portare qualche beneficio. 

Paolo Mazzaglia

lunedì 25 agosto 2014

Generazioni al lavoro



“Gioventù non sa quel che può, maturità non può quel che sa...”

“SOLIDARIETÀ GENERAZIONALE: Il desiderio di una determinata generazione di etichettare come imbelle quella successiva, allo scopo di esaltare il proprio orgoglio collettivo.”
D. Coupland, Generazione x



I segmenti generazionali oggi rappresentati nelle aziende sarebbero tre: i Babyboomers, nati tra il 1943 e il 1960; la Generazione x, nati tra il 1961 e il 1981; la Generazione Y, o Millenials, nati dopo il 1982. Non si tratta solo di etichette anagrafiche, ma di tre gruppi con sistemi di valori e modi di intendere la relazione con l’azienda del tutto propri, distinti e, in misura diversa, distanti gli uni dagli altri. Le differenze emergono su svariati temi quali, per citarne alcuni, stile di comunicazione, motivazione, aspettative di carriera, work life balance, stili di apprendimento, identità sociale. Il senso di appartenenza all’azienda, per esempio, per i baby boomers sarebbe fondato su un “patto” implicito, che avrebbe, come contropartita, una progressione tanto lineare quanto talvolta scontata. Per la generazione di Douglas Coupland, invece, il lavoro è prima di tutto un dovere e il diritto che ne deve derivare è di tipo meritocratico. Lo stesso tema diventa più sfaccettato per la generazione y, che ha scelto, o forse ha dovuto scegliere, di essere impiegabile prima ancora che impiegata. Il dominio dell’incertezza si traduce in una maggiore autonomia della propria identità dal “posto di lavoro”, in un percorso che ricerca prima di tutto coerenza con il proprio essere e i propri obiettivi.
Anche il tema della relazione con i capi e i colleghi offre prospettive diverse: se si osserva dalla posizione dei “boomers”, vi è il rispetto delle gerarchie, un confine tra privato e pubblico chiaramente tracciato e protetto, un feedback accettato di buon grado solo se somministrato a piccole dosi; se ci spostiamo dal lato opposto osserviamo come i Millenials, che vivono con difficoltà la gerarchia, trovino estremamente facile e naturale condividere in senso ampio, sfumando fino a confondere i confini tra privato e pubblico e, con la stessa rapidità e frequenza di un aggiornamento di stato su facebook, dare, ricevere, richiedere un feedback.
All’inizio del secolo il sociologo Karl Mannheim scriveva che una delle caratteristiche fondamentali del succedersi tra una generazione e l’altra è la continua trasmissione dei beni culturali accumulati. Eppure questo meccanismo, non tanto alla luce delle evidenze solo brevemente accennate sopra, ma piuttosto a fronte di quanto è sotto gli occhi di tutti ogni giorno, sembrerebbe essersi inceppato, mostrando una netta frattura tra queste tre generazioni. E potremmo farcene una ragione e ignorare la faccenda, se non fosse per la nota correlazione positiva che esiste tra soddisfazione individuale, ingaggio, clima aziendale e produttività. E, vista da quest’altra prospettiva, la questione si fa immediatamente più rilevante. Il fattore generazionale diventa un elemento di diversità da gestire in ottica di inclusione e integrazione, affinchè nessuno si senta estraneo alla realtà di cui è parte. La raccomandazione più semplice che si potrebbe dare è quella di mettersi in ascolto delle differenze e di cogliere in ogni espressione di discontinuità una nota, magari insolita ma non per questo stonata, per comporre una sinfonia ancora inedita, quale sarebbe una cultura collettiva orientata alla valorizzazione delle soggettività.
Come si possono conciliare efficacemente le differenze generazionali? Quali sono i beni culturali da salvare e quali gli strumenti per una messa  a fattor comune? 

Alessandra Giardiello

lunedì 30 giugno 2014

Il generalismo: Scienza o Fantascienza?


“Gioventù non sa quel che può, maturità non può quel che sa...”

“SOLIDARIETÀ GENERAZIONALE: Il desiderio di una determinata generazione di etichettare come imbelle quella successiva, allo scopo di esaltare il proprio orgoglio collettivo.”
D. Coupland, Generazione x

Heinlein, famoso scrittore statunitense di fantascienza  nel suo romanzo Lazarus Long L’Immortale, nel 1973 così teorizzava “Un essere umano deve essere in grado di cambiare un pannolino, pianificare un'invasione, macellare un maiale, pilotare una nave, progettare un edificio, scrivere un sonetto, tenere la contabilità, costruire un muro, aggiustare un osso rotto, confortare i moribondi, prendere ordini, dare ordini, collaborare, agire da solo, risolvere equazioni, analizzare un problema nuovo, raccogliere il letame, programmare un computer, cucinare un pasto saporito, battersi con efficienza, morire galantemente. La specializzazione va bene per gli insetti”.

Si tratta di una mera speculazione fantascientifica o di una lettura visionaria dell’evoluzione della nostra specie?

Secondo la Treccani, si dice generalista “un organismo non selettivo nella scelta di tipo alimentare (contrapposto a specialista). La strategia generalista può essere particolarmente conveniente se risorse diverse sono disponibili o se l’ambiente è instabile”. Dal punto di vista ecologico quindi, l’organismo generalista sarebbe più funzionale e adatto a un eco-sistema variabile e diversificato. 
Eppure le aziende sembrerebbero ignorare questa verità. Almeno stando alle logiche seguite nelle ricerche per i nuovi inserimenti: si cercano ovunque specialisti di settore, specialisti di un mercato, segmento, prodotto; specialisti di funzione, di ruolo, di una tecnologia. Lo specialista è il super esperto di una nicchia, di un particolare settore di una scienza, di un’arte, di una professione: padroneggia in modo eccellente la sua materia, la conosce in modo approfondito, ne sa parlare con cognizione di causa. I suoi pareri sono affidabili e precisi. 

Non metto in discussione il valore della specialità. Non esistono campioni di “sport”: esistono esperti in una certa disciplina. Se per essere campioni si dovesse sapere saltare, correre, lanciare un giavellotto, nuotare, tuffarsi, combattere.. non esisterebbero campioni. Ma quanti campioni di specialità servono davvero in un’organizzazione? In azienda bisogna dimostrare, in egual  misura, di saper saltare gli ostacoli, correre la staffetta, combattere lealmente, giocare di squadra. In un’epoca in cui la contaminazione pervade arti e discipline e ridisegna la socialità, le aziende sono ancora tese, prevalentemente, a difendere il proprio vantaggio competitivo con la strategia del sotto vuoto e della ventilazione forzata. Pur invocando flessibilità e trasversalità, non aprono le finestre per guardare al nuovo, o per guardare al vecchio con occhi nuovi, come suggeriva Proust. 

Allora forse, si potrebbe scoprire un generalismo, che non è per forza sapere superficiale, ma ad esempio capacità di “deragliare” più facilmente e quindi di pensare in modo creativo e di generare innovazione; o un’attitudine alla ricerca di prospettive diverse da conciliare; o l’espressione di una sana e fertile curiosità.  Il generalismo potrebbe essere una nuova via? Un’opzione possibile, quando ciò che più conta sono la “learning agility”, la velocità di adattamento, la capacità di leggere il contesto in modo ampio ed inclusivo?


Alessandra Giardiello


venerdì 6 giugno 2014

Sopravvivere nella “matrice”


Oggi ne se parla molto ma la famigerata matrix organization è stato introdotta negli anni 70 (è tutt’altro che una novità quindi) per gestire la competizione con i produttori giapponesi, la computerizzazione di molte attività tecniche ed ammnistrative e per dare seguito alla consapevolezza che team cross funzionali (formati da persone da diversi dipartimenti e specialità) erano necessari per creare e produrre prodotti complessi rapidamente. Idealmente questo approccio che doveva portare molti benefici “collaterali” insistendo su collaborazione, flessibilità e condivisione delle conoscenze. Guarda caso sono proprio tre ambiti in cui l’essere umano spesso non eccelle “naturalmente”, soprattutto se la sua cultura aziendale di riferimento viene dalla classica vecchia organizzazione funzionale (piramidale gerarchica) in cui è tutto chiaro, preciso, delineato…e lento. Comunque, pare che la struttura a matrice sia passata di moda negli anni 90 ma sia tornata in grande spolvero recentemente per via della forte pressione per innovare a ritmi mai visti prima.
Però oggi spesso le organizzazioni a matrice funzionano male o alla meglio creano enorme frustrazione tra le persone. Come mai?

Il fatto è che in questo tipo di organizzazione le abilità e conoscenze contano più del nostro stato, il ruolo non definisce completamente chi siamo e cosa dobbiamo fare e ci possiamo trovare con più manager a cui fare riferimento, obiettivi in conflitto, senza autorità ma con la responsabilità di guidare gruppi di persone. La struttura a matrice taglia orizzontalmente le catene verticali di comando, distruggendo i silos, allargandosi oltre i confini nazionali e combinando funzioni diverse. E per poterla far funzionare non basta creare la nuova organizzazione. Il primo passo in realtà come spiegato molto bene da un articolo dell’ Harvard business è quello di creare la “matrice” nella mente delle persone. Questo implica sviluppare una serie di attitudini, abitudini e capacità che le tradizionali strutture avevano atrofizzato. Insomma per sopravvivere alla matrice bisogna:
  • Saper gestire con efficacia l’intreccio di relazioni funzionali, gerarchiche e di progetto nel raggiungere gli obiettivi assegnati
  • Diventare protagonista del proprio sviluppo professionale e di carriera
  • Sviluppare un atteggiamento proattivo nel cercare informazioni e riferimenti necessari per il portare avanti il lavoro
  • Fare networking costante per garantire lo scambio veloce di informazioni e opportunità
  • Comprendere a fondo gli obiettivi aziendali, per risolvere in modo costruttivo conflitti tra obiettivi funzionali, di progetto e individuali
  •  Imparare a gestire l’ambiguità e a riconciliare i dilemmi
  • Fare conto più sull’autorevolezza personale che sul ruolo per portare avanti i team di lavoro che coordiniamo
Vien da se che per avere successo nello sviluppare quanto sopra dobbiamo metterci in gioco più di prima ed uscire ampiamente dalla nostra zona di confort impegnando a tirare fuori i nostri talenti migliori. Possiamo in sintesi essere delle vittime della matrice, che subiamo passivamente lamentandoci. O possiamo diventare dei veri matrix manager in grado di abbracciare la flessibilità ed il cambiamento grazie ad una solida mentalità di crescita.

Paolo Mazzaglia

giovedì 15 maggio 2014

“Signs” of the time (ovvero le infografiche)


Andando a zonzo per internet se ne incontrano sempre di più. Ed alcune sono bellissime. Allora facendo qualche ricerca si scopre che negli ultimi due anni la ricerca di infografiche su internet sia aumentata dell’ 800%. Che è un bel po’.

Ma cosa sono le infografiche? E perché sono diventati così popolari?

Forse bisogna partire dal fatto che oggi più che mai sono a disposizione di tutti enormi quantità di dati: gli "umori" dei mercati e del commercio, i  trend complessivi  della società e in generale il fiume di informazioni che viaggiano e transitano attraverso Internet. Questi dati però perché siano utili vanno letti e interpretati. E da queste letture dovrebbero scaturire insights che danno indicazioni concrete per passare all'azione. Vien da se che trovare un modo per rendere questi dati velocemente fruibili diventa prioritario. Le infografiche fanno questo: rappresentano un contenuto in veste grafica significa in modo sintetico ed intuitivo ed anche piacevole ed accattivante. E’ in sintesi l'informazione proiettata in forma più grafica e visuale che testuale e nasce da una strana ibridazione tra  arti grafiche, giornalismo e informatica. Tre ragioni facili per il loro successo sono:

  • Sono facili da comprendere
  • Attirano l’attenzione
  • Sono facili da condividere
Per conoscere meglio questo mondo suggerisco di vedere questo link a Ted in cui David McCandless trasforma set di informazioni complesse come la spese militare mondiale, i buzz mediali, gli stati di Facebook e molto altro in diagrammi belli ma semplici. Propone un'architettura dell'informazione come strumento per navigare tra i meandri dell'informazione, trovando percorsi unici e connessioni che potrebbero cambiare il modo in cui vediamo il mondo.

giovedì 17 aprile 2014

Aaaaa la felicitàààà


Da cosa dipende la nostra felicità? Da dove viene? Uno dei più grandi esperti sul tema è Martin Seligman, il padre della “psicologia positiva” ha una risposta interessante e devo dire “sensata”. Sostiene infatti che per il 60% dipende dalla nostra genetica e dal nostro ambiente, mentre il restante 40% dipende esclusivamente da noi: da come ci poniamo e da cosa facciamo in sintesi. Se non è tutto e sicuramente una bella fetta. Approfondiamo.
In un TED talk del 2004 Seligman distingueva tre tipi di vita felice:

1)     La vita piacevole: una vita in cui cerchi e ti procuri quante più emozioni positive possibili. Riguarda il trovare quanto di meglio c’è sul mercato in termini di “piacevolezze” e lo sviluppare le capacità per “procurarsi” queste piacevolezze e gustarle al meglio. Mi viene in mente la ricerca della bellezza, dei lussi, dei cibi raffinati, delle location meravigliose e via dicendo. Pare che questo tipo di vita abbia però alcuni inconvenienti. Il primo dei quali è che l’esperienza delle emozioni positive è ereditario. Incredibile ma le ricerche mostrano che per ben il 50% la capacità di godere dei piaceri non dipende da noi e non è modificabile e quindi tutti i trucchi e gli espedienti che possiamo mettere in campo per aumentare i “piaceri” nelle nostre vite possono aumentare la nostra felicità per massimo il 15-20%. Un altro inconveniente è che ci si abitua velocemente alle emozioni positive ed anche questo è un fattore su cui possiamo fare poco (basti pensare al piacere di un primo sorso di birra rispetto al decimo).

2)     La “buona vita” o vita dell’impegno: in cui ti dedichi al lavoro, alla famiglia o ai tuoi hobby con la massima dedizione ed il massimo impegno. Quello che le persone sperimentano in questo tipo di vita è il famoso “flow*”, sono completamente nel momento, sono “uno” con quello che stanno facendo ed il tempo si ferma. La buona notizia è che si può lavorare attivamente per raggiungere questo traguardo: bisogna imparare a scoprire e conoscere quali sono i nostri veri punti di forza, e costruire una vita centrata su di questi.

3)     La vita con un “significato”: ovvero come nel caso precedente conoscere quali sono i tuoi punti di forza e metterli al servizio di qualcosa di più grande di te. Una missione, una visione. Come aiutare gli altri o servire una causa.

Esplorando quello che davvero conta per la vera soddisfazione Seligman scopre che la ricerca del piacere ha pochissimo a che vedere con una duratura sensazione di appagamento. Non che sia da buttare via certo, ma il suo ruolo è più quello della “ciliegina sulla torta” più che essere la torta stessa. Aggiunge dolcezza ad una vita soddisfacente fondata sull’impegno e sul significato.

Per trasportare i concetti in azienda possiamo chiederci: quanto valgono veramente le promesse motivanti di una macchina aziendale nuova o dell’ultimo pc o telefonino? Sicuramente c’è gente che vive e muore (metaforicamente) per quelli che sono, secondo il discorso precedente, semplici piaceri. Ma quanto durano? Non è forse meglio dedicarsi a cercare quali sono i veri talenti delle persone e cercare di trovare un modo perché possano metterli a frutto nel migliore dei modi? I vantaggi sarebbero innanzitutto maggior impegno e dedizione. E contemporaneamente potremmo dare alle persone una solida base per essere davvero soddisfatte nel lungo termine. Non mi sembra poco.

Paolo Mazzaglia

lunedì 10 marzo 2014

Squali ed aerei: pregiudizi ed esempi vividi


Cominciamo con un esempio tragico: muoiono più persone per attacchi di squalo o per essere state colpite da parti di aereo che cadono? La risposta esatta è la seconda. Eppure se si chiede in giro è più probabile che (a meno che non si giochi di psicologia inversa) si dia alla prima tragedia il podio. Come mai?

La verità è che i media pubblicano più spesso notizie di persone attaccate dagli squali di quanto pubblichino notizie di persone colpite da parti di aeroplano. E quindi di fronte alla domanda noi avremo magari vividamente in mente un esempio (con tutti i trucidi dettagli) di dramma in mare che ci porterà a concludere generalizzando che le persone sbranate sono di più di quelle colpite.

Normale? Forse. In realtà si tratta di un fenomeno chiamato “availability heuristic” o “euristica della disponibilità” ben conosciuto dalla psicologia.
Questo fenomeno fa si che le persone sovrastimino l’importanza delle informazioni che hanno a disposizione, soprattutto quando si tratta di esempi concreti.
Nel giudicare la probabilità di accadimento di un evento le persone cercano di ricordare o generare mentalmente dei casi (esempi) che possano dare loro delle indicazioni utili. Ed eventi vividi ci sembrano più frequenti di quanto non siano nella realtà. L’esempio più tipico potrebbe essere di qualcuno che sostiene che fumare non fa male, poiché suo nonno forte fumatore ha vissuto fino a 100 anni. Una credenza che ignora la possibilità che suo nonno fosse un  “caso speciale”.

In che modo può questo fenomeno essere rilevante per la vita aziendale? In molti modi. Innanzitutto per come influenza i processi decisionali anche strategici. Ma a me viene in mente un esempio minore su cui ho (per fortuna, altrimenti sarei vittima dello stesso fenomeno) più di un esempio reale. Si tratta del momento in cui un manager tipico italiano, quindi molto operativo e molto indaffarato nel quotidiano, deve redigere una valutazione delle sue persone. La cosa lo appesantisce e lo infastidisce perché durante l’anno “non ha avuto tempo” di stare ad osservare i comportamenti dei suoi. Però l’HR pressa e qualcosa deve scrivere, e dopo un frettoloso colloquio con l’interessato, attingendo alla sua memoria, verga una valutazione complessiva dell’individuo basandosi…sull’unico esempio che ha in mente del comportamento del medesimo. Se il nostro valutato ha la fortuna di aver “bucato il video” facendo qualcosa di buono, ecco che la valutazione sarà positiva, se più probabilmente l’esempio sarà relativo a qualcosa di sbagliato ecco che la valutazione sarà negativa e i destini del nostro “valutando” saranno decisi da un unico evento accaduto nell’anno. Come il caso di quello sfortunato che, di norma puntualissimo, una sfortunata volta per motivi indipendenti dalla sua volontà, arriva in ritardo proprio a quella riunione importante attirando le attenzioni irose di tutta la sala. Bollato per sempre come non puntuale ed impreciso.

Come evitare questo fenomeno psicologico? Ovviamente ci vogliono tempo, energia, voglia. Per osservare i propri collaboratori in modo consapevole durante tutto l’anno e farsi un opinione a 360° collezionando esempi concreti e resistendo alla tentazione di tirare le conclusioni troppo in fretta.  Altrimenti saremo facile preda di questo ed altri fenomeni psicologici che vedremo che eludono la nostra razionalità facendoci trarre conclusioni sbagliate. 

Paolo Mazzaglia

mercoledì 5 febbraio 2014

Al diavolo gli accademici: mettiamo in campo le emozioni

Qualche tempo fa durante un evento mi trovo a parlare con un manager. Mi racconta che in azienda lo hanno appena passato di ruolo spostandolo dal marketing alle vendite, campo in cui non ha esperienza.
Occupandomi io di formazione e sviluppo anche in ambito vendite (ed essendo un venditore io stesso) mi propongo di aiutarlo. Lui mi rassicura dicendo che ha già fatto un corso sul mondo delle vendite in una prestigiosa business school Italiana. Io controbatto che quello che ha sperimentato è molto diverso da quello che offriamo noi. E lui si rivela confuso e sgomento? In che senso diverso? Ho visto tutti i modelli possibili in quel corso…

Qui stiamo parlando di vendita, ma lo stesso discorso vale per la leadership, il management, la gestione del tempo e via dicendo. Esistono le prestigiose business school di gran nome e di gran richiamo dove tutti questi programmi sono erogati e con grande successo. Ora niente da dire riguardo quei modelli. E più il nostro lavoro è “tecnico” più ci possono essere utili. Eppure per esperienza ho conosciuto leader e venditori veramente “colti” riguardo ai contenuti del loro lavoro che falliscono miseramente alla prova dei fatti (e disastrosi assessment o analisi a 360° lo confermano). Come mai?

La risposta è semplice: c’è un enorme differenza tra quello che sappiamo (come venditori o leader) e quello che poi realmente facciamo. In altre parole molti professionisti sanno teoricamente quello che andrebbe fatto e detto. Ma non sono pronti, capaci o abituati a tradurre un modello in un comportamento semplice e concreto e soprattutto a sopportare il disagio emotivo, la paura, il rischio e l’incertezza di fare quello che andrebbe fatto.
La vera sfida in sintesi non è quella del sapere o non sapere. Ma del saper essere in concreto e nel trovare il coraggio di andare oltre le nostre abitudini ed i nostri comportamenti concreti e di “sopportare” il disagio che questo implica.

Questo passaggio non potrà mai avvenire a livello teorico. Bisogna fare, impaurirsi, vergognarsi, sudare, riprovare, arrabbiarsi, rimanerci male, e riprovarci ancora. Per tornare all’esempio con cui siamo partiti come può un manager dirigere una forza vendita senza aver provato la pressione che un cliente ti mette addosso, la sensazione di fallimento di quando non chiudi, la difficoltà di presentare al meglio il tuo prodotto in un mondo di competitor tutti uguali? Solo con la pratica saremo in grado di ampliare la nostra gamma di possibilità comportamentali. E la vera formazione serve proprio a questo: a fare allenamento prima di buttarsi nel mondo reale, aumentare la preparazione al gesto concreto, allo scontro emotivo, al disagio.


Con questo non voglio dire che la preparazione “teorica” non abbia una sua utilità. Ma rimarrà molto marginale se non si forza il passaggio alla pratica. E tale passaggio deve obbligatoriamente passare attraverso momenti di disagio e “fatica” emozionale. La verità è purtroppo che poche persone, sempre meno da una personale statistica, hanno voglia di sottoporsi a questo processo di messa in gioco. E’ molto più confortevole mettersi seduti e godersi (o sopportare) lunghe presentazioni di business cases e magari fare qualche esercizio giocando coi numeri con un foglio di carta. E poter scrivere sul curriculum che si è fatto quel corso presso quella prestigiosa scuola. Il titolo e l’apparenza prima di tutto. La sostanza è una cosa che pare non ci riguardi.

Paolo Mazzaglia

domenica 5 gennaio 2014

Il caro vecchio Maslow ed il ruolo del manager


C’è solo una cosa peggiore di far crescere le tue persone e farle andare via: non farle crescere e costringerle a restare. Zig Ziglar
La piramide dei bisogni di Maslow è molto nota. Secondo la sua teoria bisogni e motivazioni hanno lo stesso significato e si strutturano in gradi, connessi in una gerarchia di prepotenza relativa; il passaggio ad uno stadio superiore può avvenire solo dopo la soddisfazione dei bisogni di grado inferiore. Ora in qualità di manager si è in grado di avere influenza ed effetto su almeno tre livelli della piramide stessa. Sicurezza, Appartenenza, e Stima. Al primo livello corrisponde appunto la “sicurezza” almeno relativa del poter mantenere il proprio posto di lavoro, di avere davanti una possibile percorso di carriera ed anche temi come una eventuale assicurazione sanitaria o la possibilità di avere un sano worklife balance. Il livello successivo, quello di appartenenza, è relativo al fatto che le persone vogliono sentirsi parte di una squadra, dove collaborazione, cameratismo e rispetto reciproco sono importanti. E si ha la sensazione di stare contribuendo a qualcosa di importante meglio ancora. L’ultimo livello è la stima. Le persone vogliono giustamente avere la sensazione che il loro contributo è importante, che i loro meriti sono riconosciuti, e vogliono sentire di stare crescendo, diventando migliori.  Bene, un manager dicevamo può avere un effetto molto forte su questi tre livelli. E l’effetto può essere positivo o terribilmente negativo. Bastano poche semplici mosse se ci pensiamo bene per distruggere questi tre livelli di motivazione. Ecco alcuni esempi:
  • Creare un clima di incertezza e paura per il futuro come leva per una maggior produttività
  • Non mantenere le promesse
  • Stimolare la competizione all’interno di team che dovrebbero operare in sinergia
  • Non riconoscere sforzi e risultati raggiunti dai collaboratori
  • Essere poco chiari su obiettivi e senso dei compiti assegnati
  • Non creare percorsi di sviluppo e carriera per le persone
Il problema è che quando una persona è frustrata nei suoi bisogni fondamentali  è molto in crisi. E no solo ha una produttività più bassa ma è anche altamente infedele e lascerà l’azienda alla prima occasione. Anche se l’azienda è di successo ed interessante a molti livelli è il manager in questione il punto di riferimento. Le persone devono lavorare innanzitutto con i propri colleghi stretti e con il capo. Ed è lui che lasciano, non l’azienda, quando decidono di cambiare lavoro.