lunedì 18 gennaio 2010

Evviva il pessimismo (parte prima)


Ristrutturazioni, calo delle vendite, interruzioni di linee di business, licenziamenti ma anche relazioni che non funzionano, problemi di salute, mancanza di senso e direzione. Sono argomenti di attualità e a tutti può capitare di vivere momenti di profonda preoccupazione professionale o personale: “potrebbe succedere anche a me”.
E a tutti capita invece di incontrare qualcuno che, venuto a conoscenza del nostro stato meditabondo e mal mostoso, si propone come salvatore dicendoci “ ma dai, pensa positivo!”. So da fonti certe che spesso la reazione istintiva di fronte a questa perla di saggezza sarebbe quella di afferrare il nostro portatore di positività per la coloratissima cravattona che probabilmente indossa e scaraventarlo giù dalla tromba delle scale. 

Non che il pensare positivo sia un male, anzi. Ma se le emozioni negative sono profonde, spesso il pensiero positivo non attacca perché è un’applicazione artificiale che impegna la nostra mente cosciente, mentre il nostro subconscio, rappresentato dallo stomaco che brontola e frigge, continua nella sua attività di “preoccupazione” drenando energie preziose. E allora non solo non riusciamo davvero a vedere le famose “opportunità” nei momenti di crisi, ma ci perdiamo anche il bello dell’essere pessimisti e negativi. Perché un bello c’è, tanto che la presenza di almeno un pessimista in un team può essere assolutamente benefica. Ne parleremo. 

Concentriamoci adesso però sulle nostre ansie, quelle che ci attaccano al mattino appena svegli e magari sulle quali siamo concentrati guidando verso casa o andando al lavoro. Quante di queste “paure” nascono dall’esperienza diretta? Di norma molto poche. Normalmente le nostre inquietudini nascono più dall’incertezza che dall’esperienza. L’ignoto insomma spaventa più del noto. Cosa fare allora? Il problema se lo sono posto in molte epoche e molte culture diverse. Incominciando da una cultura popolare che arriva addirittura dal futuro. Un grande maestro recitava:

Devi dare un nome alla tua paura prima di poterla sconfiggere.
Maestro YODA (da Guerre Stellari)

Il messaggio è chiaro. Finché non hai definito con chiarezza l’origine delle tue paure non puoi fare niente per risolvere la situazione. Viaggiando a ritroso troviamo lo stesso concetto nei filosofi stoici che esortavano a sconfiggere innanzitutto l’ignoranza relativa ai propri timori con l’invito a immaginare con chiarezza e addirittura a praticare gli scenari peggiori. Un particolare esercizio di preparazione al peggio suggerito da Seneca consisteva nel fare una bella lista delle proprie paure (e così potremo cominciare a dare loro un nome e soddisfare l’invito del maestro Yoda). Quindi definire per ogni paura le azioni necessarie affinché non si verifichi. E infine dedicarsi ad una terza colonna in cui definiamo un piano d’azione per ripristinare lo status quo nel caso in cui il peggio sia avvenuto. 

I vantaggi sono molteplici: innanzitutto una sensazione di benessere legata all’aver consegnato le nostre angosce alla carta, quindi la possibilità di fare riflessioni profonde sulla direzione della nostra vita. Il secondo e più radicale passaggio proposto dagli stoici riguarda la possibilità di passare dall’immaginazione del peggio al viverlo concretamente. Sicuramente difficile e con un po’ di fantasia possibile. Ho conosciuto una persona che per affrontare la propria paura delle malattie e del dolore fisico si è dedicato a fare del volontariato in ambulanza, ed ha funzionato. Il principio è molto semplice … ogni volta che scegliamo la sicurezza rinforziamo le nostre paure. Vivendole abbattiamo il muro dell’ignoto e ci mettiamo in condizione di cambiare profondamente il modo in cui percepiamo noi stessi e il mondo. Insomma, se il pensare positivo con noi non funziona o magari ci ha semplicemente scocciato, pratichiamo il pessimismo, ma facciamolo con metodo. Si possono fare scoperte molto interessanti.