lunedì 25 gennaio 2010

Evviva il pessimismo (parte seconda)



Se tutti la pensano allo stesso modo significa che c’è qualcuno che non pensa.
Generale Patton


Nel primo post relativo al pessimismo accennavo all’utilità di avere un pessimista di buon livello nella nostra “squadra”. Certo, potendo scegliere, chi vorrebbe nel suo team un brontolone, sarcastico, noioso e menagramo personaggio che ammazza costantemente l’entusiasmo con le sue preoccupazioni? Eppure se ben gestito e se il resto del team è costituito da un numero ragionevole di persone decentemente positive e propositive, il ruolo del pessimista può diventare prezioso. Innanzitutto però dobbiamo capire se il nostro pessimista lo è “di sostanza”, quindi utile, o “di forma”, altamente tossico. Il pessimista di forma usa la negatività come arma di perversa leadership, in sostanza cerca di emergere non brillando di luce propria ma cercando di offuscare la luce degli latri denigrando progetti, idee ed iniziative. Il suo pessimismo è più orientato quindi al “chi” che al “cosa”. Non è però difficile disinnescare l’oscuro boicottatore. Basta invertire il comportamento che l’istinto ci suggerirebbe di tenere. Facciamo un esempio: stiamo per guidare una riunione con il nostro team per il lancio di un progetto e ci aspettiamo proposte operative e prese di responsabilità da parte dei partecipanti. Temiamo dal pessimista “di forma” grandi scuotimenti di testa, ipotesi di fallimento e precise indicazioni sul cosa non funzionerà e l’attacco costante alle nostre proposte. E allora istintivamente tenderemo a farlo parlare il meno possibile. Ma non sarà possibile e alla fine dedicheremo la maggior parte della riunione a cercare di smontare le sue obiezioni fino a che la conversazione e la riunione in sintesi non sarà monopolizzata dal nostro negativo interlocutore. Pessimista 1 manager 0. Per invertire il processo dovremo invece agire all’opposto. Invece di cercare di evitare l’entrata in gioco del pessimista dovremo favorirla. Invece di cercare di smontarlo dovremo valorizzare il suo contributo negativo. Ad esempio aprendo la riunione con la richiesta formale di fare un elenco di problemi che vede nel progetto. E quindi ascoltarlo attentamente fino a che non avrà finito. Ringraziando per il contributo potremo quindi passare ad ascoltare le proposte favorevoli preparate dagli altri. Normalmente i pessimisti di forma quando vedono che il loro contributo negativo non funziona “contro” ma viene incorporato e gestito come parte del processo sotto la leadership del manager perdono la loro carica e si ridimensionano automaticamente. Detto questo passiamo al contributo del pessimista “di sostanza”. La prima utilità di questo personaggio è legata al fatto che probabilmente è l’unico che ha il coraggio di dar voce a qualche forma di dissenso. Capita spesso nei gruppi che le persone tendano a tener per se le opinioni che sembrano contrarie al trend del gruppo stesso generando quello che in gergo si chiama “falso consenso”. Il tema è affascinante e ne riparleremo. Invece il contributo del nostro pessimista può catalizzare i dubbi degli altri, renderli espliciti e permettere di lavorarci sopra. Il secondo punto è legato per definizione al comportamento dei superpositivi. L’entusiasmo per un idea od un progetto tende infatti a non far vedere possibili oggettivi problemi. Al contrario il pessimismo “di sostanza” non è altro che l’estremizzazione di una attitudine profondamente analitica e orientata a valutare lo scenario complessivo. Dare retta al pessimista ci aiuta ad individuare e risolvere in anticipo potenziali ostacoli per il successo del problema. Se il nostro team è quindi costituito da persone molto propositive e positive, sempre in linea con i progetti e gli obiettivi che come manager impostiamo, forse è il momento di adottare un pessimista. Non può che farci bene.